Parole sante, un’antologia

Parole sante, (ùmide ampate t’aria) – antologia di poesia a cura dell’associazione culturale Orto dei Tu’rat – Kurumuny 2017

testi di: Alberto Bertoni, Alfredo Panetta, Andrea Donaera, Cristinas Micelli, Daniela Liviello, Fabio  De Matteis, Fabio Franzin, Giuseppe Ciarallo, Guiseppe Greco, Graziano Graziani, Iula Marzulli, Leonardo Omar Onida, Lussia di Uanis, Micvhele Bellazzini, Nadia Agustoni, Paolo Coceancig, Pasquale Di Lena, Patrizia Sardisco, Piero Rapanà, Pina Petracca, Renato Grilli, Salvatore Pagliuca, Sebastiano Aglieco, Sergio Pasquandrea, Sergio Rotino, Stefano Moratto, Valentina Mazzotta, Vincenzo Mastropirro

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L’antologia che avete tra le mani, a cui i poeti hanno fornito il loro prezioso contributo, rimane fortemente legata alle sollecitazioni che vengono dalla terra in cui nasce, anche se, a partire da queste sollecitazioni le “umide ondate di aria ” si sono messe in movimento attraverso il suono della loro lingua originaria. Ovviamente starà a voi lettori più o meno sintonizzati con le particolari anime di questo esperimento…

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Un popolo e una patria hanno in comune un territorio e una lingua. Ma far sì che territorio e lingua, popolo e patria si intersechino e si tengano insieme, richiede la coscienza dell’importanza costituita dal tessuto orografico composto dalle lingue locali, dai dialetti. (…) Il terzo volume antologico del progetto Parole Sante vuole essere luogo fisico, oltre che cartaceo, entro cui si possa dare ospitalità a un ragionare attorni ai luoghi di appartenenza muovendo dai dialetti per arrivare a declinare una personale condizione del resistere in essi.
(dalla presentazione di Sergio Rotino)

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QUALCHE TESTO con un mio brevissimo commento

SERGIO ROTINO
Il testo di Sergio Rotino mi colpisce per il doppio registro adottato: da una parte una frammentazione del discorso, un balbettamento che destruttura il dettato, quasi che non ci fosse nulla da dire, da profetare; dall’altra una ricostruzione del discorso, avvertibile se si legga il testo senza tener conto delle cesure, degli andare a capo e degli spazi. La dichiarazione finale attesta, in effetti, un “morire”, uno sciogliersi, sia del discorso che del ritmo – quindi, forse, del tempo –

ni tene per m
manu ma

dopu

dopu ca

n’ave scasciati li t
tienti a
parole a
ragionamenti ca
nenzi suntu su
cose ca
nenzi sapenu te n
nenzi se
anu mai
estute

e

nun sapenu
nu sapianu
chiui nu t
tenenu
chiui

sapore nu’n
ne tenenu

chiui
nu ticenu
cu
st’aria intru
st’aria
nfucata ca

se more se
àrde l
la lingua ca
prima asare
se ulija intra
la ucca tutta
e moi p

pe’ ci
ole moi

eccula s
sta more già

morta ete

ci tiene per m / mano ma // dopo / dopo che // ci ha rotto i d / denti a / parole a / ragionamenti che / sono niente su / cose che / niente sanno di n / niente si / sono mai / vestite // e // non sanno / non sapevano più non t / tengono più // sapore non / ne hanno // più / non dicono / con / quest’aria dentro / quest’aria / affocata che // si muore si / arde l / la lingua che / prima baciare / si voleva dentro / la bocca tutta / e adesso p // per chi / vuole adesso // eccola s / già sta morendo // è morta

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PATRIZIA SARDISCO
La scelta di scrivere finalmente in dialetto ha fatto maturare, a mio avviso, questa poetessa, rispetto alle prove in lingua italiana. Qui leggiamo dell’origine, del fenomeno che fa deflagrare la parola simile all’apparizione di un dio. In questo caso “questo dio” che inspira, ha una forma assolutamente materica e legata al territorio: la creta. La creta è l’origine e il fare stesso della parola che, dunque, si configura come lavoro e aspira al concreto.

parrari ncrita
parissi funnurigghia

ma quannu s’arrisetta acchiana
e allura è u levitu
è aria maliritta
e addiventa ciuri

mi mmriachi ‘i signali
e mi nn’assuppi a negghia
nura e funnuta e nica
nuàra assulacchiata

cota tra lingua e cielu
vucca tra cielu e vrazza
tra miua e mia nùtrica
tra mia e a matri crita

parlare di creta / sembrerebbe fondiglio // ma quando trova assetto sale / e allora è il lievito / è aria maledetta che diventa fiore // mi ubriachi di segni / e me ne assorbi la nebbia / nuda e profonda e piccola / orto assolato // raccolta tra lingua e cielo / bocca tra cielo e braccia / tra me e me bambina / tra me e la madre creta

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NADIA AGUSTONI
I testi di Nadia Agustoni conservano sempre qualcosa di sfuggente e assolutamente riconoscibile nello stesso tempo. I suoi paesaggi sono quelli nativi della bassa bergamasca, terra dalle rocce nere e dalle nebbie che avvolgono le valli. La ritroviamo qui, questa nebbia, cantata in un suono musicalmente pacato e dolce, come “un vento di passeri”.

sperdida l’erba iè ie i cà nel ciar di matine
u ram al stormes u mond isse bel amò
e so coi piop coi fiur pisegn nel bicer
il cor insema ai laur m c indõ i parole
i nas mia.

che al cres l’urtiga
e u vent de pasero…

smarrita l’erba son vive le case fin dentro l’alba / un ramo stormisce / un mondo così bello ancora / e sono nei pioppi / coi piccoli fiori nel bicchiere / il cuore insieme a un silenzio a cui le parole non nascono. // qui cresce l’ortica / e un vento di passeri …

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MICHELE BELLAZZINI
Scrivere in dialetto è la capacità, necessaria, anche se non necessariamente dichiarata, di riportarlo all’origine, alla fatica dell’origine, altrimenti ci carichiamo di un’operazione esclusivamente postmoderna, superficialmente sperimentale. In questo piccolo monologo a parlare è una donna che ha vissuto un’infanzia dove il male, la fame, la paura di tutto, erano esperienza quotidiana dei semplici e dei diseredati. Deve essere chiaro questo: il dialetto esprime sempre, in qualche modo, una mancanza, un altrove, geograficamente delineato o interiormente avvertito non fa distinzione.

Cos’ t’hoi da dir

Cos’ t’hoi da dir?
D’i mivi gh’n’è pu d’morti che d’vivi
e me ho da far a muxinarm.
J’è passat l’temp
d’robar l’ua alla Gorpara!

Quel ch’j’è nut dop’
l’è la me vita.
L’è stata mej
ma n’m’ven d’dirla.

D’arcontar
gh’è sempr me bà
la me sorela
l’me miccin
l’mal
la fama
la risa da ragazza
la paura d’gnicò.

Che devo dirti?
Che devo dirti? Dei miei ce n’è più morti che vivi / e io faccio fatica a muovermi. / E’ passato il tempo / di rubare l’uva alla Volpaia! // Quel ch’è venuto dopo / è la mia vita. / E’ stata meglio / ma non mi viene da dirla. // Da raccontare / c’è sempre mio papà / le mie sorelle / il mio asinello / il male / la fame / le risate da ragazze / la paura di tutto.

3 commenti

  1. Un esempio multiplo di scrittura che coniuga la mai dimenticata origine e la tensione vitale alla resistenza. La lingua, con il suo trascinare visioni essenziali, semplici, capaci di attraversare u menti, cuori e luoghi, si fa indicante strumento per superare la nostra deriva. Intensi tutti i testi riportati da Sebastiano, che spingono fortemente a leggere gli altri. Grazie della segnalazione! Annamaria Ferramosca

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