Minime

MINIME
MINIME

1.

Bruna Spagnuolo in “Alla Bottega” 1986

Diviso In «Minime I-Minime Il-Minime III. Aforismi, questo libro si presenta senza prefazione, ovvero senza alcuna chiave di lettura che possa dare al lettore un indirizzo d’impressioni esterno alla propria mente ed al proprio sentire. Non farò accostamenti-incasellamenti di Aglieco in periodi-sottoperiodi / correnti-sottocorrenti di vario indirizzo, poiché questa opera prima, con tutta la parte di mondo-mente-corpo-anima che si porta dentro, si autodice. Costretto a trovare una propria chiave di lettura, il lettore si avventura nei versi asciutti, raggiunto ora da una percezione sensitiva di sintomi-sentori premonitori, ora da una pensosa mediazione osservazione (o aspirazione?). I versi sembrano sfociare in confini intuiti oltre la città che uccide, ma dopo brevi schiarite, furtiva e inavvertita, come nebbia senza corpo, una tristezza-nausea ondeggia (nient’altro che eterea presenza o epilogo? / non si sa se in oriente o in occaso). Di tanto in tanto l’eco di un lamento sale dal quotidiano come una pena fanciullesca partorita (partoriente) da (il) tempo morente (vissuto come dimensione-sofferenza di passi che si ricongiungono). Gli occhi sono specchi, le vite fotogrammi-pathos racchiusi in distanze separanti. Lo sconsolato malessere esistenziale che si delinea nei versi non trova scintille-catarsi neppure nell’amore, che appare come semplice lenimento (soltanto una pausa tra le intersezioni-scambio di vita e di morte). Quando alcuni versi disegnano spiragli, s’intravede gioia, ma sincopata ,/mutilata, così come la luce-amore appare acrilica e racconta di una insicurezza che non riesce ad imparentarsi col cinismo, benché lo corteggi. A volte il lettore si sente avvolgere dall’eco di una stanchezza smarrita nell’aria e nel tempo (passato/presente?), come il limite-consapevolezza d’impotenza in/volontaria, non avulsa da una sorta d’insofferenza-dipendenza (inconscia) nei confronti della luce. All’incalzare del tempo-insidia-bluff, Aglieco oppone una attesa senza guerre, come se il suo desiderio di riscatto fosse bloccato da un guscio-guardia-prigione.

2.

“Tra l’apnea e gli strati” di Gabriele Contini in “Malvagia” 1986

Pause, sospensioni, ritorni ora lenti ora incalzanti segnano le fasi cliniche di questo libro, “Minime”, dovuto all’estro di Sebastiano Aglieco , poeta al primo esame del volume in versi. “Minime” è un libro che conosce l’unità tematica, un’unità che auspica il delinearsi dell’universo poematico. La visceralità dell’ispirazione è corrispondente alla velocità della stesura del testo che di quando in quando cede alle lusinghe autobiografiche più per smania di focalizzazione interna che per incoerenza o incertezza espressiva. E’ importante dire che, peraltro, in larga parte della struttura estetica l’esperienza del soggetto come una leva verso l’oscuro sondato e misteriosamente misurato dalla parola. I poeti non scagliano la parola come fosse uno strumento consumato e, quindi, di puro significato logico, dialettico: la costringono nel prisma dalle facce molteplici che rimanderà nei raggi l’effetto di una luce nuova. Il poeta di “Minime” non vuole sprecare parole. Non c’è quasi mai verbo che non abbia, all’interno della costruzione espressiva, effetti plurimi. Questo non significa che le immagini siano lucenti tutte della stessa intensità, ma significa che la tensione vitale verso una nuova dimensione del linguaggio è ben presente. “Minime” si snoda sul filo di un rapporto a due, forse intrecciato e incrociato fra questi elementi: l’individuo-poeta, la coscienza di sè, la vita, la poesia, la femmina, la materia. Forse sono “minime” le difese che il conflitto, il rapporto cioè, fra due entità induce a schierarsi. Volume esile, di questo “Minime» ha il gusto del frammento, lo stile ermetico, il puntuale ricorso ai temi interiori, l’atmosfera difficile e fragile determinata da un’ansiosa ricerca nella psiche della Psiche stessa.

3.

recensione di Fabio Greco

Bel libro, “Minime” di Sebastiano Aglieco, delizioso nella sua ma1izia acerba (con vivissimi riferimenti alla bocca e al sesso), nella sua struttura paratattica con frasi apparentemente indipendenti, una accanto all’altra, separate da una semplice virgola o unite da un provocatorio enjambement (perché provoca inoltre un soprasenso che tende a staccarsi, inutilmente, dall’oggetto della rappresentazione, ossia quello erotico-sensuale), frasi indipendenti, dunque, che come un mosaico, cercano di farsi posto in un tessuto fonico e ritmico, senza quasi mai sgomitare. Un linguaggio amabile che riesce meglio, forse, nei testi brevi, dove il tempo manca e subito è necessario soddisfare le esigenze che dittano dentro, meglio dove c’è breve respiro e l’itinerarium poetico si blocca, dove manca quasi l’ossigeno perché inizialmente e avidamente soddisfatto, e nell’immediato vuoto la cicatrice sembra rimarginarsi, ma è solo apparenza che desta meraviglia e lascia insoddisfatto un desiderio che di conseguenza aumenta. Uno degli esempi più belli è a pag.10 che, dopo un inizio, come dire, rappresentativo, dove in quel “lasci nella bocca quest’amarezza” apparentemente semplice e scontato, si chiude il primo periodo, proprio in quel momento, appunto, che sembra non avere nessuna pretesa, si modella la chiave che darà modo alla lima poetica di prendere velocità, di velocizzare il ritmo, nell’alliterazione della lettera “c”, spingendo il verso sul piano erotico-sensuale (”… tutto è come un sonno/se non avessi la tua carne che consola/e la carne s’appuntella contro la carne/il resto è baciare sulla morte) e in quel s’appuntella ad aumentarne la tensione che paradossalmente si spegne nel baciare la morte sulla bocca dove morte si lega all’amarezza di prima e insieme a loro volta preparano gli ultimi due versi finali i quali, come in un cerchio, si rifanno vagamente a quelli iniziali dove l’indeterminatezza in “questo lento confine” del primo verso si risolve nella determinatezza del penultimo “Ho un male, qui ” e che il secondo verso anticipatore della rottura del collasso della tragedia “che separa la strada dai tuoi occhi” a sua volta si risolve nell’ultimo “dove appoggi spesso i tuoi occhi”, in una ambiguità (necessaria insoddisfazione) che prelude al consenso amoroso sempre minato dal suo esito contrario. Un piano, quello erotico-sensuale, che dominerà per esteso tutto il volume, una tematica anticipata fin dall’inizio, nella molle descrizione degli occhi che “avanzano così minimali, così superficialmente lenti” e del sesso inconsciamente metaforizzato nel verso “Intanto dalle finestre stagnano/queste vie melmose”. E’ un volume d’amore, “Minime”, che Sebastiano Aglieco edifica con estrema cura con riferimenti alla bocca, al corpo come talamo d’amore, agli occhi (topos poetico da molta e antica tradizione rivisitato) e di altri luoghi erotici di altre aree semantiche come la luce, la pioggia e da questa inevitabili sono la goccia, le lacrime (quest’ultime di un fascino sentimentale e sensuale, e così apparse prepotentemente sulla scena dal secolo XVIII, in Prèvost, in Recine), es, a p.16 “Questa luce soltanto/ addossata ai muri della stanza(…) e queste nuvole fradice che piombano/ (. ..) la tua bocca è cosi acerba/ ha sapore che non so dirti” dove alla consueta melodia si unisce il fascino della parola singola (fradice; bocca; acerba; sapore). Il preziosismo che Aglieco, in questa sua prima e molto che più discreta opera ricerca è assiduo, quasi una necessità. E con esso lo stupore, l’imbarazzo che vuole volutamente arrecare e che con molta frequenza genera (dalla metà del libro in poi), come a voler richiamare più fortemente l’attenzione del lettore, a voler mantere la stessa e più alta tensione che qui cresce alla distanza come a p.23 “nuovamente si ripete la follia della gola/la cancrena della carne aperta senza suture” o alla pagina successiva “è bestiale come l’unghia che passa/sulle braccia,l’afoso sorriso carico di schiuma” che inevitabilmente apre un altro motivo, quello dell’orrido-sensuale. Un libro che sa farsi apprezzare, soprattutto per l’impegno elargito dall’autore. Un impegno che troverà la sua migliore espressione nel volume “Grandi frammenti”, pubblicato dieci anni più tardi (Ed. Tracce, 1995) nel quale i temi principali, profusi in “Minime”, ritorneranno più ampliamente e con più maturità artistica. Un volume “Grandi frammenti “, che a una prima lettura fa ben sperare e che in tempi migliori sarà di certo oggetto di una mia analisi, e, lo merita, visto l’inevitabile interesse che ha suscitato in me la lettura, assai gradevole, del primo.

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