Antologia dal web

Pubblico qui i testi ospitati su internet:

STELI DI NORMANDIA

A KIBBONS DAVID

Ricordo

Una volta, per gioco, da bambino
accolse nel palmo della mano
una cavolaia, e la stritolò.
Fu un segno, una promessa del destino.
L’astuzia e la vocazione al sangue
sono doni che si pagano con la stessa
sorte. Nel suo lungo viaggio
aveva imparato che il sonno è un
deserto senza baluardi.
Non c’è nessuna scusa
per ciò che è stato.
Rimane il mare.

Steli di Normandia

A volte ritorno alla tua storia di guerra
fredda, la vendetta che nel sangue si prolunga
pretende riscatto e obbedienza, (dopo tutti
i nostri anni). Ritorno alla città espugnata
vedo i fuochi alti della Storia
la quaresima che di noi resta.

Le steli ricordano i bambini morti
l’armata canadese allo sbaraglio,
sulla spiaggia di Dieppe; i due aviatori
“che per primi hanno osato”:
sono gli elenchi della nostra incompletezza.

C’è questa promessa nel pensiero:
gabbiani preparano altri confini
allargano le spiagge e interrompono
le strade, cancellano i nomi dei luoghi
conosciuti: dirottamenti, pensiero espugnato.
Poi qualcuno rinasce in un battesimo
benedetto dalla luna nuova.

Un figlio a Omaha Beach

A volte veniva un bambino
appeso al seno di sua madre
un padre, vicino, lo rincorreva per gioco
strani segnali fra loro, eppure parole di
un alfabeto chiarissimo.
Pensava che un figlio è questa vicinanza
dello sguardo, (gli uomini
al largo, creano solo altri uomini).

Sul confine dei gabbiani
lo vedeva avanzare bagnato e senza
volto, lui stesso, in una fotografia del
settantotto; rideva, verso la forma incerta
dell’estuario, alle spalle il mare, una luce
che dai suoi occhi già declinava.
Forse presagiva questa spiaggia dello sbarco
l’inadempienza del seme
piccoli occhi che non lo avrebbero aspettato
frasi già dette, in un dormiveglia di periferia:
“tu, Telemaco, sei sempre nei miei sonni…”

Gli orfani

Sterrate le città a ferro e a fuoco
gli orfani fuggivano sulla spiaggia.
Talvolta, senza orgoglio, qualcuno gli
chiedeva di arruolarsi, mercenario
e lui lo prendeva con poco prezzo e
il ricatto di una dura obbedienza.

Qualche volta, soprattutto negli anni tardi
desiderò perforare quelle tenebre
sporgersi nel loro abisso per aprirli
al mondo in un dolore più sincero.
Ma nemmeno un nome trovò segnato
nei loro occhi.

La solitudine del soldato I

Gloria e morte – è questo che ossequiano?
Mario Luzi

Tu non eri preparato a questa oscurità del cuore
tu, che non avresti mai sopportato la resa
il disonore dei compagni
piuttosto uno scontro capillare
donne o bambini, che importa?
la guerra è soprattutto la resa dell’innocenza
un naufragio di corpi senza confini.
Il sangue non è mai troppo se abitua all’orgoglio
i vivi si scordano le offese
e tutti sono lasciati.
Non era come nelle carestie
che cancellano il ricordo:
nella guerra i morti sono perdonati
hanno un nome più alto
e gli onori di una patria;
questo i vivi non lo sanno
le ombre cancellano tutto. –

Nel mondo c’era il bene e il male
non sapeva come.

La solitudine del soldato II

Talvolta, dopo la presa di una città
si sedeva accanto agli occhi di un bambino
(serrati da nessuna pietà, che importa ai superstiti?)
gli occhi, nella morte aperta, sono come quelli
dipinti in un quadro, hanno qualcosa di duraturo.
Davanti al loro silenzio – che dicono solenne –
s’immaginava una pietà consolatoria; poi veniva
il sonno, e allora gli apparivano in una corazza
serrati nella condanna, ancora vivi
nell’ultimo riflesso della sera.

Non sapeva, per un soldato
solitudine maggiore.

Memoriale

Il silenzio ha vistose cicatrici in questa terra.
Qui ti sei fermato, hai visto ciò che hai fatto
cosa si vede, dall’alto, di un attacco in grande
stile: niente nomi, divisioni, provenienze.
Eppure è solo un nome che
ci lega a qualcuno, a qualcosa,
la pronuncia del nostro nome.
Abbi pietà di questa impotenza
perdona le parole ai vivi
ai morti reca degna sepoltura.
Riportaci a casa.

Note
A parlare è un Ulisse moderno, che compie un periplo, da est a ovest, lungo le strade d’Europa.
KIBBONS DAVID: Nome di uno dei soldati sepolti nel cimitero americano di Omaha Beach. A ricordarlo è una lapide, nel cosiddetto muro del pianto, riservato ai caduti i cui corpi non furono mai trovati.
Steli di Normandia. Dieppe è una cittadina della costa normanna, scenario nel 1942 dell’operazione “Jubilee” primo sbarco effettuato dagli alleati sul continente. 7000 uomini, per la maggior parte canadesi, sbarcarono all’alba in sette punti diversi della costa. Sottomessi a un intenso tiro di artiglieria, parecchi reparti dovettero sacrificarsi per coprire la ritirata. Il museo Nungesser-et-Coli, a Etretat, custodisce ricordi de “i due aviatori che per primi hanno osato”.
Un figlio a Omaha Beach. Il nome vero della località era St-Laurent-sur-Mer, ma fu cambiato in onore dei soldati americani caduti nel corso della battaglia del cosiddetto D. Day.
Memoriale. Grande museo rievocativo, vicino a Bayeux. Un filmato interattivo ricostruisce le operazioni dello sbarco. Le immagini della spiaggia invasa dai soldati sono riprese dall’alto.

Da La tua voce, inedito

All’insaputa della notte
quel fumo rappreso sul davanzale
portava i canti delle falene morte
il masso sospeso sulle teste
a ricordargli della fine
il primo villaggio
lo strato più intimo sotto
il taglio del lago.
Tu non conosci la pietra
e il segno di quella mano che
rovina nell’attesa.
Dietro le nostre sere, di
una piazza scolpita nelle parole
scivolata ancora più lontana
acerba nei ricordi dei poeti
– perché non sono mai stato come voi
perché non vi ho mai conosciuti
perché non mi siete mai appartenuti -.
Viscida, schifosa nella luce
mostrata veramente come la cena
della sera, qui, nel cerchio, e
consolato dalla durezza
estraggono a sorte, spaventano una
voce aprendola alla Storia.

Così disse, così rivide quello che
non aveva mai veduto, il ramo del
pianto, secco, l’indurita sentenza dei
poeti, questo sei tu, luce
inappagata, ombra rifranta.

***

Da Giornata, La Vita felice 2003

*
Tu non ridere di questo sconforto,
della pazienza persa, dei visi che mi
guardano e se ne vanno. Numi tutelari
hanno tracciato strade verso un silenzio
di ritorno, verso un niente che ritaglia gli occhi.
Non voglio più scrivere poesie;
da queste parole in vedetta
ci sarà il tempo di perdere tutto
il resto, tutto il niente che
non abbiamo ancora visto, tutto il
niente che non abbiamo ancora detto.

*

Terra incominciata, sei apparsa verso
sera in mezzo alle parole ed è finito
il mare. Il viaggio si ritrae per altri
anni, ma ora dobbiamo stare, finire il
lavoro che abbiamo incominciato.
Voglio parole in me, senza la musa
oscura che mi ha generato, senza la luce
dell’angelo. Omettere quell’oscuro presagio:
sulla soglia della casa ti perderai.

*

Esiste un ordine e un tempo,
cerco questo in questo tempo:
macerie all’inizio della Storia
un bambino prima di essere bambino.
Guarda cos’è stato il giorno
nelle ore della pioggia: qualcosa è
accaduto e ci siamo già dimenticati.

Esiste il finire di un luogo
l’imparare a morire come all’inizio.

*

Perdonami, non sono all’altezza,
non so dove andare.
Eppure devi restare
devi sorgere dalle lenzuola
devi capire, nell’amaranto delle fragole,
il sangue del crocifisso che ci schizzò in faccia,
ricordi? in quella scena dell’infanzia.
Avremmo dovuto distruggerlo per quella nostra
promessa, trapassare i suoi occhi come nei sogni
fondare una parola che dicesse il dolore
che valesse per sempre.
Ma ora dobbiamo restare
ora che la distanza è netta
ora che ci giudicano e
non accettiamo il giudizio
non vogliamo essere degli altri
come gli altri.

*

Allora qualcuno capisce che tutto è sbagliato
che le parole ci hanno ingannati,
uscendo da una gora
o forse semplicemente volevano dire
che non ci apparteniamo.
Sulla carta il pensiero è violento
calma simulata
fiato trattenuto per non ingoiare il mondo
contenuto, è ingannato dalle forme
per dirle ci separa, ci fa scannare.

*

Scrivo nel lampo che il fiore imprime in me
preceduto dal respiro e dalla calligrafia.
Allora è il vento che mi respira , fratello,
incredulo di un ascolto che a tratti mi governa.
Non c’è più tempo per l’armamentario di
me e della vita mia.

*

NERO SEPPIA

In questo paesaggio
rimangono due mani che vangano la terra
un albero gira ed è tutta la preghiera.
Vorrei essere semplice nel dire
come questo tuo parlare senza colore
l’inizio del segno, o solo la sua conclusione.
Gli uomini sono nel mezzo.
Qualcuno si è allontanato e
ci ha lasciati soli
i poeti rimangono in un cappotto
sono attenti, nella distanza delle mani.
Chi è necessario dice ciò che resta
e non vuole niente.

*

Occhi appena detti nella veglia
liberarsi dall’incanto della neve
delle figure che tornano e pretendono.
Non c’è niente che ci renda felici
non esiste un canto per onorare tutti:
i morti che ci hanno preceduti
i vivi che ci hanno accompagnati.
Chiudere le porte. Ora basta.
Ma i bambini, i bambini in un’aula dove
un mondo è possibile, dove i debiti
saranno rimessi, i bambini che insorgono e
ci chiedono di spiegare il dolore del mondo!

*

Di questo non voglio niente
della casa e del rito degli affetti
delle contese e della storia in un luogo
dove tutti vivono
della chiarezza che pago a peso d’oro.
Costruisco ogni volta un senso coi bambini
li porto a guardare
ciò che saranno e in parte accetteranno:
sciocchezze, riti dello stare e del perdersi.
Di questo non voglio niente
il mondo si ferma e ride di me
o in un sogno reciproco ci desideriamo.

*

Ora sei il poema di me
vita finalmente libera
sei questo pensiero che ho sognato in segreto
il più debole e puro
che non ho realizzato:
essere prova di sé
nell’inganno del mondo
o nella sua salvezza
nei corpi che chiedono ristoro
nelle menti che desiderano una cosa.
Ma questo non sarà possibile
e niente sarà privo di dolore.
“Qui ingannati si sta bene”
ma un po’ lontano io resto
in una casa protetta dal contegno
mura coatte, distacco e pavimento
un po’ in voi e un po’ ancora
in questa terra dove fallire è una vittoria.

*

Ma una parola nuova è solo una promessa
sospetto un inizio senza conclusioni
per lento soffocamento della parola,
una visione che a malapena prende forma.
Né sguardo, né bellezza
ma solo un vento che cancella e poi ritorna.

*

Io sono felice nell’estate forte
senza respiro
senza visione delle cose
senza il tempo della fatica
che chiede di essere onorata.
Un fermo confine
mostra la separazione
per preparare la preghiera.

Dio della voce ora calmaci
calmaci e custodiscici
dal vero nemico celato nelle parole.
Potenza delle azioni
che liberano e ci salvano:
“non voglio essere amato
voglio amare”.

*

Sei adesso
quello che nessuno dice e non ricordi.
Un baule di poesie sarà lanciato in un pozzo
verso una luce contraria.
Il viaggio è duro e finisce con un’asta
appartenuti a carne trattenuta
(neanche nostra).
Ci attende un fallimento
e le parole ci bruciano
una mano le sotterra
i versi anelano a una prosa chiara e limpida
ma è ciò che chiamiamo
“lotta dura e persa”.
Appartenere:
solo questo ha senso
solo a questo passaggio senza senso.

*

Io non voglio niente
di tutto questo non voglio niente.
Nella casa l’odore dei gatti e di una cena
distante il cuore, è più forte ciò che preme.
Ma occorre imparare che
sono quello che non credono e non perdonano
sono una mente sotterrata e palpitante.

da DOLORE DELLA CASA, Il ponte del sale 2006

Più grande il tuo corpo
– tu, piccola, assente
madre bambina
tornata nel tuo ventre.

*

E io ti vedevo oltre i fogli tracciati a
penna, ciò che resta di questa piccola
vittoria: saltare i gradini
giungere subito all’inizio.
Quali parole disse che non ho mai pronunciato?
Gli occhi amati e restituiti
gli occhi perdonati e subito dimenticati.
E’ stato come la madre che non lascia il
figlio, non lo fa nascere.

Lì ero già scritto
c’erano questi chiodi.

*

Non ricordo, non mendico.
Ecco la durezza: essere con te in una
forma della bellezza che redime
le parole, parole mai dette nel
timore. Questa la condanna
dei vivi: tradire i tuoi secondi
mangiare il pane dei morti nella tua
bocca incuneata in me senza il timore
della luce, senza tepore nelle mani.

…e freddi vedremo gli occhi
nello sguardo di un dio, tutto sarà
chiarito e battezzato, tutto splenderà
in un sogno, e sarai di nuovo quella della
foto seduta davanti casa, su un muretto.

*

Ho sognato gli altri questa notte
ma tu non sei venuta
hai portato la tempesta stamattina
il grigiore del tempo come a volte fanno
i morti, per mettersi in contatto con i vivi.
E se questo è un segno, se un aruspice
mi volesse spiegare, forse mi indicherebbe
il nome di un bambino.

…torneranno gli angeli nelle ali
mostrandoci una porta, un albero.
Questo sarà il dolore della casa.

*

Dio che ci fai spezzare il pane
e bere il vino, ogni giorno lo
spezzi insieme a noi, ogni giorno
per tutto quello che non capiamo.
La casa è aperta, ogni cosa sottratta
alla sua condanna: le tue medicine
i vestiti piegati
i macchinari che sostengono il corpo.

*

Gli angeli, dice la predica
ti accoglieranno a flotte come bambini
ti toccheranno le mani, ti condurranno
intorno a vedere come tutto è trasformato
uguale nella luce, toccato dalla nostra
stessa mente. Gesti di tutti i giorni
bellissimi, isolati.

*

La mamma ha portato l’acqua, un dono
per le campagne, l’acqua nella sua bocca
dissetata. Senti? Un rosario ci accoglie
dalla distanza della casa per la pace nostra
perché tu possa ritrovare nello specchio di
Dio il viso delle origini, la dimenticanza
nel dono del battesimo; entrare nella
vita con la corona dei santi
il bianco virgineo delle pupille
un odore di fragola che presto dimentichiamo.

Ti porti questo canto alle porte
e sulla soglia della casa
non più dimenticata
non più ti perderai.

*

Piove, piove, piove
devo tornare a casa
fermare la tua immagine distanziata
in un colore freddo della non-memoria
dove tutto è contenuto in un altro tempo
un tempo più pulito e più sincero
riaperto alle mani
al mondo dei bambini.
Circondatela nello stare quieto e nella
misura, nel mondo piccolo delle
piccole voci, sicura, nell’affetto delle voci.
Circondatela stretta fra i limoni
le more selvagge delle strade
gli amati melograni
la granita al limone.

*

Partire dallo sguardo, è aprire una luce
che prepara un paesaggio, un viale che
porta lontano, dove lo sguardo finisce.
E si riconosce un uomo, un uomo che
avanza con un sorriso lieve, e ti riconosce
nel nome che avevi dimenticato
e ti ricompone nel nome che ora ricordi.
Abbiamo visto tutti da qualche parte
abbiamo sentito tutti quella brezza
custodita nel ricordo, fermàti in qualche
passaggio della nostra mente.

E’ domenica, i fiori sono al balcone
in alto saliremo, ci baceremo sulle
bocche, in alto riconoscerò il tuo
viso, uno fra tanti, quietamente, lentamente.

*

E io avanzavo a testa alta verso la
tua discesa, un sole benigno ci illuminava
la fronte nel chiarore di una luce
gialla, come una promessa. Sì,
la promessa di un nuovo
giorno più quieto, più sincero.
Non eri più solo mia, ma di tutti
tutti ero io, e li riassumevo
con l’idea di un mondo in te
l’origine di tutti, nella terra.

*

Il mastice sutura la tua bocca
in questo silenzio abissale delle bocche
ma io rimango un po’ distante
nessuno osa toccarti la faccia.
Questo ho tracciato tra i
miei occhi e i tuoi, questa
pioggia attesa, questo
freddo delle tue giunture.
Avrai il tempo di guardarmi, come
si guarda il bambino per la prima volta
ti accoglieranno i bambini come
hanno fatto oggi:
“Ben tornato, maestro
faremo del nostro meglio”.
Contro la cattedra
stretto nei loro corpi luminosi, in coro.

I bambini si mangiano la morte.

*

Questo dono del riso è per sempre, ridete
ridete, bambini, accoglietela nella piccola
casa, nella casa sua rifondata, nel colore
della sera. Perché niente è tutto quello che
non sia uno stare nella luce, l’ordine delle
nostre giunture, i vestiti puliti della festa
gli occhi, bellissimi, per sognare.

*

Ora salvata, conservata come
un abito per gli anni futuri, dismessa.
O forse incustodita, nel silenzio della
stanza. E lì, improvvisamente sarai
negli occhi, nuovi occhi per guardare
il mondo. Sono sereno, ho sentito che
non mi chiamavi, che il tempo non era
più nostro ma del tempo tutto, delle
nostre parole mute. Era un colore
che non aveva colore, un fiato senza
il dolore del fiato.

*

Mi mangiano le parole nelle bocche
di tutti, le parole del mondo che
sogna la sua scomparsa: microfoni
sedie e bocche, non posso stare qui
non posso non guardare gli alberi.
Muro divelto, giornata di freddo e
nebbia, il primo freddo per allontanarti
― o forse per fermarti.

Noi avremo occhi per tutti
il colore sarà per sempre.

*

Chiedo a ogni cosa il suo silenzio
le mani abbracciate nella veglia
dei vivi. Senza bocche, i fiori che
traducono in odore la loro assenza.
Questo sarà nel tempo:
il pegno di uno sguardo muto
il ritorno dei tuoi occhi trattenuti.
Torneremo nella strada dei viandanti
in un tempo più buono della resa
i Dormienti chiederanno un nome
un bacio.

*

E’ la forma dei tuoi occhi
nuovi, nuove parole custodite.
Ne ho bisogno, è necessario pulire
le cose, mettere fiori al tuo balcone
o le piante verdi che non appassiscono.
Questa è la luce del mondo
i bambini che eri nelle grotte, nelle sere.
Ritorni nello sguardo dei tuoi figli
in qualche colore della pelle, nello
scatto che ci obbliga e ci ferma.
Un tempo ti assomigliavo, ed era
la prova che sognavo.
Ora mi assomigli
sogni, forse, o rivivi.

*

Siate sereni e docili alla morte, tutto
questo è per gli umiliati che non sanno
di un confine: essere nell’assenza dei bambini
come una consolazione. Non dicono
stringono le mani — malleoli, occhi
nella mia bocca annusano la tua morte
come i cani che si svegliano la notte.
Sanno del loro semplice potere
i Nominati, la prima volta che
veniamo, la prima volta che
ce ne andiamo. E mi stringono
nell’impazienza della resa
ti riconoscono al tatto, sputano il
latte della giornata. Siamo con te
dicono, non andartene oltre
lasciaci il pane, il rimprovero
le parole che ti dobbiamo.

*

Ma era per te questo addio, la festa
della sera; era per la madre terra
che reclamava la tua ombra.
Ti ho veduta ancora. Attendevi
di notte, in questo paesaggio sconsolato
della mente, gli occhi di capra
come un fiore in fila nel giudizio.
Rimani tra questi visi sconosciuti
nell’ordine di te, di parole nuove
e ci saremo ancora nella testa
saremo la nostra carne che dura
finché ci sarà forma, nella promessa di un
altro paesaggio. Qui i mostri
dormono dietro le porte. Non
svegliarli, non toccarli. Svaniranno nel
mio ultimo abbandono.

*

Nel sonno li ho veduti:
erano piccoli, nelle tane
erano spaventati.
Un cacciatore notturno
scoperchia il nido
li espone alle tenebre
colpisce con violenza
con la vanga.
Questo è il rito oltraggioso
la colpa dell’essere venuti nei corpi.
Dare forma, madre
offrire l’acqua agli assetati
il pane agli affamati
la giusta rimostranza agli umiliati.
Dare forma
per rinascere dalla stessa vita
consacrare il tuo corpo apparente.

*

Ma questo sarà detto e
giustificato davanti al tuo dio
nell’incedere del tempo.
Queste parole che consumiamo
saranno pesate e disperate
e daranno tempo per tempo
pezzi di carne per un nuovo universo.
Ci sarà ancora il dolore
ci sarà l’attesa e un forte risentimento
le anime di nuovo dietro tutte le nostre parole.

*

UNA SERA HO PRESO LA BELLEZZA

Ora finalmente ti devo lasciare
devo imparare a dire
da questo distacco della
terra — il sole è giallo.
Nella mia carne ti riconosco e saluto
la bellezza che appassisce, ti
sacrifico le mie ultime parole e
non ti servo.

Muore chi deve morire
uccidimi, se vuoi, nell’ora dei vivi
colpiscimi con forza sul punto più alto
della testa, fallo nella piena luce
senza l’ombra delle parole
rinuncio a qualsiasi salvezza
a qualsiasi perdizione.

*

OLTRE IL GIARDINO

Tutto duro, di qua o di là
da una preghiera tra lo steccato e il
pane — movimento di un muro
crollerà l’universo sulle mie ossa e
rideranno di me questi piccoli capi
asserviti al potere di una scrivania.
Cerca il senso dove c’è stupore, e onore
impara che la morte è promessa
nel destino di tutti gli occhi. E allora
non temere le insegne del potere
e quando ti dicono: rinuncia
scendi a patti, accetta la perdita
dell’innocenza, abiura l’ingenuità
non fare l’offeso
accetta questo mondo o vattene.

*

AVVISAGLIE

Ma tu sei questo, questo soltanto
osso ben piantato nel cuore del mondo
e nella mia testa, nella visione di un mondo.
Accetta il colpire per dovere
– l’essere colpiti per dovere.
Ripeterò nella testa ciò che è taciuto
sotterrerò la pietà dei vivi per necessità.
Fuori: attesa e respiro
il racconto del mondo.

*

TI SARAI SVEGLIATO

Mettersi gli occhiali, guardare bene
per non sprecare le parole.
Ma il male è nelle parole che
vogliono dire il mondo e lo confondono
nelle parole che colmano una voce
sottratta per forza alla sua calma.
Accetta, allora, una breve bellezza
non cercata, sguardo indifferente
nelle cose incustodite.
Custodiscile finché non avranno
timore, indica la strada della loro
disillusione quando le luci, infine, verranno
accese e saremo liberati dal sonno.

*

CITTA’ NOTTURNE

Ti guardo e non parlo.
Era il dolore nei sogni antichi
erano i paesaggi notturni
del mio brancolare senza ali
altezza della fatica
nei pensieri segreti.

Erano città notturne incustodite e
vive, lasciate dagli uomini
assenti, in un altro luogo.
Una luce, questo ricordo
un battesimo di stelle che
Chiedono l’ascolto di una voce.

Se scrivo di me, per me, è per tutti
perché non vi conosco, perché non
mi conoscete, come in tutti.

*

PICCOLA TREGUA

I

Ecco, ora hai finito di scrivere, hai ritagliato un
senso, scagionandolo da queste menti
c’è un tempo che sa accoglierci, più mansueto.
Poche immagini per dire ancora: casa
giardino, steccato. O per fermarti
difenderti dalle nuove migrazioni.
Alberi frontali, sentinelle di un cielo
sereno hanno una giustizia per tutti.
Qui siamo al sicuro
il vento di ponente non passerà.

II

Léggere, senza dolore, le immagini degli
alberi, le pietre miliari, le infinite
partizioni. I visi ci precedono nella corsa dei
fiumi — cammino nella campagna, appena
toccato dall’acqua scura.
Parlavi del nulla, delle parole sottratte al
timore delle foglie; guarda, sono calme
dicevi, la tempesta non si alzerà
gli argini sono alti, serrati.

GLI OCCHI (inediti)

I
Gli occhi che nella distanza chiudo
i pochi alberi all’orizzonte
la pioggia dalla finestra
«grazie per quello che fai
per i nostri bambini».
E poi un silenzio bianco
il riassunto, a millimetri
degli amori custoditi.
Uno solo è il male, una
la grande distanza che ci fa soffrire
erano questi gli occhi
e tu li avevi scambiati per altri occhi.

II
Passo nei minuti contati, nel suono di
una stanza chiusa senza porte e senza finestre.
È il luogo antico dove mi porti
una questione privata tra te e me.
Ecco gli oggetti nel buio
il chiarore del bacio che t’incontra
la mano che dimentica.
Se perdi il colore rimane il freddo
il senso nascosto del tuo confine.
Insegnami la lingua delle parole
mute, l’amore nel sonno, la distanza
della luce dal suo chiarore.

III
Sul treno le nuche a distanza
era di maggio appena finito
gli scarsi papaveri nella sera
orientale, le voci degli altri
gli oracoli dell’Est.
Il mare si estinguerà nei suoi confini
fino alle porte di Milano.
Luce tra i capelli che vi cerco
che vi dimentico, ti porterei
ti lascerei negli occhi
nello sguardo perduto di questa
canzone: “chiudo gli occhi sui suoi occhi
e abbraccio la paura”.

16 giugno, Ancona-Milano, verso sera

IL PURO DETTATO DI QUESTI GIORNI 1994 (inediti)

1.

Dietro le parole in lontananza
ma sentita in noi, presente
evocata e presagita sempre
da questi occhi, da queste mani
precise svagate nell’attesa.

*

E ancora dormi, scolpita
nel mio acciaio, disossata
dalla mia claustrofobia
ombra della luce
mai lenimento, e ferita
vilipesa nei clamori
ancora dormi in me
partita, dai miei
occhi innamorati.

*

Dopo, il soccorso
ore slavate nelle sere occidentali
in attesa del sangue.
L’ago della spina contro gli occhi.
Ora appari tu
guardata dagli occhi dove ti sciogli
ora, traslochi nel mio cuore
e non mi senti
i passi si moltiplicano
la notte mi vivi nel tuo respiro.

*

Fiotto, a voci, dalle tue mani
subito inaridita, questo mi resta
questo posso pregare.
Gli alberi dicono che
il fiato non ci appartiene
neanche il ricordo che abbiamo accumulato
i visi che ci hanno posseduti.
A volte è proprio così
tra la casa e la cantina
incedere nei dirupi e
non ti accorgi della lontananza.
Aprirmi dal vero, voglio
i fiori in attesa della fine
i tetti dove viaggiavi
gli ulivi sanguinanti.
E’ silenzio fatto di respiro
è mantice che succhia il cielo
fine della campagna
fine dei sogni
fine della parola fine.

Si è spalancata
squarciata nel muro della stanza
tutto s’incendia e si spalanca.

– Avrei voluto aprirmi nel modo in cui si apre una porta, per necessità.

– Tu lo sai che la morte arriva dal mare?

– Quella notte, ricordi? Il pellegrinaggio a san Sebastiano di Melilli.

Scappavi dal tuo incedere
ombra del primo giorno
violavi le regole del
nascere e del morire.

– Sono impazzito per essere diventato così vago.

I canti morivano nei tramonti
ora tu ci assomigli.

*

Il desiderio avanza
segni, interpunzioni
cosciente che divaghi e non perdoni
neanche muta, se ricevuta
dai poeti in disonore.
Ora viene la notte
ora è la stagione delle serre
ti sentirò dalle tane delle formiche
sangue in bollore caldo, solo forma di
sangue accucciato nei miei pori
in me si chiude il senso
in me si riapre la tua giusta causa.

*

Queste armi di cartone
questo giubilo sempre risucchiato
questo rivangarti e non trovarti in nulla
conoscerti nella mia prima strozza
ricostruirti in me, sibilo possente
e in me rinchiuderti, prepotente.
Per dire con quel tono che tutto azzera
canto delle alte stagioni e
degli inganni, definitivo pallore dei
dirupi, in quale polla, in quale
luogo segreto, in quali silenzi si forma
questo senso, questo albeggiare dove
sfiati, altro cantare, altro
sentirsi celibi per sempre?

*

Eppure non l’avrei mai detto
quel silenzio sulle piaghe della tua pelle
come un viaggio del tuo viso, dove le parole
ritagliano nel silenzio solo il
non detto di te, l’indicibile
e da un momento all’altro ho creduto
ho immaginato le tue mani vive
la fonte dei tuoi occhi, quando
parlavi della poesia:

– sai cosa saremo, dopo?
Un paesaggio saremo
un indicibile moto di quello che preserviamo
solcati dagli sguardi dei viandanti
un andare e venire, la piega della
bocca immortalata -.
Tu cessato, esule, dalle tue
pianure dove si alza il vento.

*

Ancora questa moria di versi
in attesa del taglio giusto che c’imprime
io lo sapevo: segni, apparizioni dalla vita
dove ci contiene il senso
io senza chiarezza, senza ritmo, senza poesia
un colore freddo svagato nella memoria
le mani nel dissenso
nell’indifferenza dei poeti.
Memoria della voce aspettavo
e tu sapevi che non c’era redenzione
– ho collezionato dei tagli
mi sono consumato tutto in attesa di questi tagli -.
Ecco, ti vedevo, dal soffio avrei
intuito l’isolamento, più tardi
ti avrei vista, avrei sentito la tua
voce gutturale, il dolore,
mi avevi detto, ecco cos’è il dolore.
Poi c’era stata ancora una interruzione
certo, se avessi saputo leggere
l’interpunzione di quei segni
le tracce lasciate sulla scrivania dopo
millenni, nessuno avrebbe saputo più
trovarmi, nessuno avrebbe ricordato il senso.

Ancora si ricordò
ancora gli venne quella cantilena sottile
sulle nocche delle dita
– toi, qui dans la vie tu m’as fermèe les yeux…
non avrebbe voluto anticipare il taglio
non avrebbe voluto addormentarsi tra i nemici
ora i bambini gli assomigliavano
ora li vedeva.

***

2.

PAESAGGI DAL PORTO DI SIRACUSA

C’erano segni che non ci lasciavano stare
e fuochi, e rocce di una spiaggia secolare
avvisaglie di un tempo incalcolato
che a malapena si lasciava misurare.
C’erano interferenze minime
gli occhi lucenti e la parola bastarda
il pianto violato
l’estrema mia periferia.

*

Eppure tu venivi nella notte
la festa come una veglia
all’altezza degli occhi
la porta nel cuore
una perduta notte.
A volte bastava uno sbaglio
e la terra franava sotto i piedi.

*

Da lì, tu che mi contieni
partenza è tratto, luce riflessa
e non si svela nulla alla partenza.
Dicevi che non c’era redenzione
fuori le cesoie
i morti gonfi, tutti morti, gonfi.

*

Eri deserto di uomini e di donne
sull’estrema albeggiata riva
gli anni cantàti a malapena
le morte stagioni
era il tempo dei passi svelti e dei mattoni
niente che si ricordava il nome.

*

Occhi, rapidi occhi
i fiordi si stupiscono sul davanzale
la luce imprestata, stanca luce.
Era la riva che si lasciava portare
le venti monetine, i rami rossi
il fuoco in ogni dove genuflesso.

*

Forte nel mio cuore
una tana ricucita
mastice e sutura di parole
sempre più crudeli.
Ora appari tu.
C’erano canti che misuravano il nome
c’erano le scarpe rotte
i bambini morti.

*

Lessi solo per sentirti dire
il dolce inganno e il desiderio spento
le cicale abbuiavano nei fanali
l’aria schioccata era un oltraggio ai
vivi, quello che rimaneva
nessuno lo poteva misurare.

*

Giunsi troppo tardi e
non c’era più un lamento
occhi albeggiavano a mani spente
i figli morti, la saliva della terra.
Eppure c’erano ancora pezzi e
altarini per i santi
chi piangeva non ubbidiva
fuoco senza partenze e mani giunte.

*

Andavamo giù per burroni
(le infinite perdite di maggio)
i cristalli di rocca nelle ciminiere.
Dicevi che non c’era redenzione
e le parole date senza un lamento.
Le partenze s’addensavano nei tramonti.

*

Erano i cerchi morti, le strade del
dissenso, le tombe scavate dentro ai
pozzi e le parole riempite con gli sputi.
Ora ci lasceremo trasportare
i canti lanciati contro i muri
eppure vorrei ferirti
aprirmi nella mia prima strozza
il fuoco di te che non conosce il nome
àncora nel tuo sangue.
Vedi come s’addensa l’ora
il lume spento
l’oscuro lenimento e le ferite.
Tu mi risorgi.

*

Verranno in fila i pensieri a reclamare
dove il vento si strinse nei burroni
e noi stringemmo gli occhi.
I fiori pungeranno i topi
e le parole saranno cattedrali.

*

Tu mi dicevi che il canto è un vento nuovo
che ogni volta ci scorda
il canto sei tu che parti da lontano
luce degli occhi, mia luce, perduta.
Era poca la terra, il fiato arato
la pelle dei braccianti in contumacia
e il mare che albeggiava sulle mie sconfitte.

*

Noi saremo portati da un suono
lentamente scenderemo le scale
dove i viandanti placheranno le acque.
E tu, ragazzo, ancora in me
in quest’attesa di fragole
in questo opporsi sempre
ai flutti e alle autostrade
solo il vento ci dirà chi eravamo
e i semi della terra
ovunque incontreremo un padre.

*

In questo tempo la risposta è giunta
la bellezza del dolore e delle mani in attesa.
Sanno conoscere
inutilmente placano il vento
spartiscono e restringono il lenimento.
Chi sa dove dormi, risvegliata mia voce
chi attende e sa sentire
le canzoni sempre nuove dai confini?

*

Arrivavano in noi dagli estremi confini
arati in picchiata e senza
un dove della terra, morte voci
i contadini dalle strette bocche
le armi della prima guerra.

ALTRI TESTI IN FORMATO .PDF

sebastiano-aglieco
fogliopoesia02
bacheche2006

Grandi frammenti

3 commenti

  1. Questi versi di Sebastiano hanno il raro pregio di “chiamare”chi legge, di non farlo stancare mai : un invito , una mano sulla spalla , semplicemente . Niente coazioni mediate da alchimie linguistiche , azzardo intellettuale , intarsi agiografici e men che meno minimalistici : solo quel più d’anima che si chiede alla poesia .

    leopoldo attolico

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