Note intorno ad Antonin Artaud e a qualche libro pubblicato su di lui in Italia

Antichi e moderni hanno elaborato un pensiero assai diverso sul concetto di follia.

La cultura occidentale individua nella follia uno stato d’infermità, un turbamento dell’equilibrio psichico inaccettabile, pericoloso per la tenuta del contratto sociale; quindi da riportare a uno status di sostanziale neutralità con tutti i mezzi possibili. Il “deficit” mentale solo apparentemente viene curato per il benessere del “paziente”; piuttosto per scongiurarne il diffondersi, e infine l’avvento di una distopia sociale: ” il regno” dell’altro.

Il contatto con questo “altro” nelle popolazioni antiche è invece inglobato nelle clausole condivise del viver bene, in quanto l’ignoranza della comprensione e della conoscenza implica che queste facoltà siano demandate alla saggezza dell’oscuro che tutto sa e tutto conduce. Anche se non dice.

Il “mentalmente diverso” ha vari nomi, tutti assimilabili alla facoltà di farsi tramite con l’insondabile. Le diciture di sciamano, sacerdote, medico, poeta etc…rimandano allo stato di monstrum. Chi sentiva le voci, nelle popolazioni antiche, veniva ammantato in uno stato di sacralità. Non era il malato da curare ma il curatore che si faceva tramite. Se oggi la follia è una malattia, succede perché il folle non ha più “mestiere”; è rimasto solo con le sue voci, col suo sguardo allucinato da temere e di cui bisogna vergognarsi.

Molti di questi artisti “diversi”, nel corso della loro opera hanno perseguito la strada di una ricerca dell’insondabile, concetto ancora presente e normato in molte popolazioni antiche. Uno di questi è stato Antonin Artaud nel suo diario Al paese dei Tarahumara (Adelphi 2009), resoconto di un viaggio in Messico alla ricerca della razza degli uomini perduti.

Nel nostro Occidente, nella progressione di un disconoscimento sociale, assistiamo nei secoli all’appropriazione violenta della facoltà di medium da parte della classe sacerdotale – l’unica preposta a dialogare col dio – spalancando le porte allo stato di alienazione del mediocre che, in quanto mediocre, è da considerarsi malato. Una sorte contraddittoria è riservata al poeta, a partire da un momento in cui la facoltà di medium si desacralizza e il poeta è tale solo nell’esercizio di una follia del dire, nella pratica di una lingua “alt(r)a”.

Questo il quadro dentro il quale è possibile collocare certe esperienze di follia “artistica”, da studiare come casi a parte in quanto l’artista, attribuendosi il primato di medium, non è più in grado di sovvertire nulla, in quanto irriconosciuto. Artaud è, semplicemente, il folle che non gode di alcun prestigio; innocuo, al limite oggetto di patetismo o di simpatia. Il disagio che prova consiste essenzialmente nella consapevolezza del suo valore, non nel dolore della malattia.

La sua opera non si situa totalmente dentro l’esperienza della follia ma in una continua trasposizione emotiva tra il mondo interiore e l’altro. Non l’altro come doppio di sé o luogo dell’invasamento del dio, ma il milieu sociale.

Egli non sa dire esattamente, sente la pulsione profonda del dire ma non la sa esprimere in pienezza. La sua blasfemia, la sua provocazione, il suo erotismo, sono gli strumenti appuntiti di un’esigenza di autenticità: l’arte non come imitazione di una forma riconoscibile, strumento di un realismo innocuo, ma come trasposizione di una verità profondamente sincera, quindi crudele perché non accettabile dagli equilibrismi sociali della maschera.

Questa dicotomia dolorosa tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è costretti ad essere, è tema assai dibattuto e trattato dalla letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento, in maniera radicale in Rimbaud , Pirandello e molti altri. L’artista vero, quando si esprime, sa che non può mettere maschere alle pulsioni più profonde ed è cosciente che pagherà a caro presso l’esercizio della libertà.

L’espressione della follia è, insomma, strumento appuntito di rivolta, portata sul campo dell’inganno più sottile, e cioè il territorio della lingua. E’ la lingua ad esercitare la violenza sul mondo. Scardinare la lingua vorrebbe dire riportare il mondo alla crudeltà sincera dello smascheramento, mostrare, probabilmente, la natura del volto più recondito del dio.

Gli studi dedicati ad Antonin Artaud sono consistenti, anche in Italia. Recentemente Carmelo Pistillo ha pubblicato la traduzione di due importanti opere, quelle che si situano ancora dentro i confini di una “ricerca” letteraria condivisibile; di una possibilità di lettura: Il Pesa-Nervi , eFrammenti di un diario infernale, sono usciti presso La Vita Felice nel 2023. Il libro contiene un lungo e importante saggio introduttivo, il quale ricostruisce le tappe di un’avventura artistica complessa ma anche tra le più difficili ad elaborare.

Il motivo di questa complessità non consiste nella difficoltà ad accogliere la vicenda umana, ma a recepire il ribaltamento delle strutture lessicali e sintattiche della lingua che il poeta propone. Artaud, annota Pistillo, non era interessato agli esercizi di scrittura automatica dei surrealisti. Il vero dramma consisteva per lui nel non riuscire a trovare i mezzi necessari a fare combaciare la voce col suo senso. La sua scrittura, insomma, è abitata da un’esigenza di necessità che non sempre coincide con i riti del buon vivere. Al limite, (ma questo è un mio pensiero) si potrebbe pensare che la follia come forma della Malattia tout-court, abbia giocato il ruolo di una prigionia creativa, potente dio che non ha permesso ad Artaud di esprimere pienamente la sua arte.

Un altro elemento dell’opera di Artaud messo in luce dal libro riguarda il ribaltamento del senso dello scrivere con la mano. Leggere Artaud implica un coinvolgimento totalitario del corpo del lettore; pratica che coincide con il gesto dello scrivere senza “organi”, certamente una conseguenza di pensiero del percorso artistico di Artaud – la voce e il teatro – e del suo tentativo di immaginare un teatro totale.

Il corpo/mummia è una delle strade indicate dal poeta per sbilanciare il rapporto antropologico tra pensiero ed emozioni. L’emozione si totalizza, rintanandosi ed espandendosi dentro i ristretti limiti del cervello antico. La scrittura decide di situarsi definitivamente fuori dai confini storici della censura.

Sotto questa superficie di osa e pelle, che è la mia testa, c’è un’angoscia che ritorna, non come un punto morale, come i ragionamenti di una natura stupidamente meticolosa, o abitata da crescenti inquietudini nel senso della sua altezza, ma come una

(decantazione)

interiore,

come l’espropriazione del mio nucleo vitale,

come la perdita fisica e primaria

(intendo dire perdita dalla parte dell’essenza)

di un senso

p. 113

*

Amici cari,

ciò che avete letto della mia opera non sono altro che i miei scarti, raschiature dell’anima che un uomo normale non può dire sue.

Che il mio male nel frattempo sia peggiorato o migliorato, non sta lì il problema, ma nel dolore e nella continua siderazione del mio spirito.

Eccomi di ritorno a M…, dove ho ritrovato sia la sensazione di torpore che di vertigine, quell’urgenza folle di dormire, quella repentina perdita delle mie forze accompagnata da una sensazione di grande dolore, di degradamento improvviso.

p. 121

(da Il Pesa-Nervi)

Di Artaud si è molto occupato anche Pasquale Di Palmo in prove di varia traduzione, saggi e, addirittura, un suggestivo Album Antonin Artaud, pubblicato qualche anno fa dal Ponte del Sale.

Altri testi sono apparsi per le edizioni Via del vento nel 2012, La razza degli uomini perduti e altre prose.

Il suo volto aveva ripreso la sua immobilità impassibile, come gli derivasse dall’interno. Eccolo di nuovo ridiventare lontano e, sovente fino all’ora della campana del crepuscolo, non toccava libro né diceva parola, le sue due mani, come contratte e rese lucide dalla lampada, sui bordi del banco.

Qualcosa di puro, di distaccato era in tutta la sua persona che avremmo preferito credere buona; ma ci bastava guardare i suoi occhi. Ci inquietava. Quella mania ecclesiastica di congiungere le mani, la sua andatura, il suo atteggiamento solenne, lento, come ripiegato su se stesso, gli donavano un’apparenza straordinaria fra gli uomini.

p. 3

Si tratta di un passo della prosa Il sorvegliante di collegio dagli occhi azzurri, un testo che sembra un autoritratto se lo si confronti con una foto di Artaud del 1926, rappresentato nello stesso modo in cui egli descrive il sorvegliante.

Antonin Artaud, Rivolta contro la poesia, Edizioni dell’Obliquo 2007.

Nel saggio introduttivo Pasquale Di Palmo annota l’esigenza di rileggere l’opera di Artaud lasciando da parte gli stereotipi di una critica superficialistica, evidenziandone, piuttosto, non l’aspetto caotico ma la costruzione interna per rintracciarne, insomma, i codici. Il concetto di “doppio” che Artaud ha elaborato a proposito del suo teatro della crudeltà, probabilmente è da estendersi in una molteplicità di io, la frammentazione di una coscienza che non è più interessata a farsi assorbire dal sociale, dai suoi atti di smembramento. E’ vero che, se questa rivolta contro la poesia si autoproclama come manifesto, è perché Artaud “ne è intimamente sedotto e non concepisce che si continui a fraintenderla”: (Di Palmo nell’introduzione).

Non abbiamo mai scritto se non con l’incarnazione dell’anima, ma essa era già compiuta e non da noi, quando siamo penetrati nella poesia.

Il poeta che scrive si rivolge al Verbo e il Verbo ha le sue leggi. E’ nell’inconscio del poeta credere autonomamente a queste leggi. Si crede libero e non lo è affatto.

p. 27

Non voglio mangiare la mia poesia, ma voglio donare il mio cuore alla poesia. Ma cosa significa il mio cuore alla poesia? Il mio cuore è ciò che non sono io. Dare il suo sé alla poesia è rischiare di essere violati attraverso di lei. E se io sono Vergine per la mia poesia devo restare vergine per me.

p. 29

In un suggestivo lavoro dedicato all’arte dei “folli”, GALASSIE PARALLELE, storia di artisti fuori norma, il canneto editore 2019 Marco, Ercolani così riflette intorno al concetto di ossessione:

Chi è il malato psichico che fa arte?

Quale ossessione lo guida? E’ libero o prigioniero?

In che modo è libero? In che modo è prigioniero?

E se fosse solo una questione di ossessione e di intensità?

Se il suo sguardo bruciasse le cose e se stesso più di quanto non sia in grado di fare lo sguardo dell’artista normale?”

p. 61

A proposito dei disegni di Artaud, riporta un pensiero di Pasquale Di Palmo: “Non dimentichiamo d’altronde come la follia avesse ispirato ad un altro “eretico” come Antonin Artaud dei disegni in cui il corpo veniva a più riprese dissacrato, violentato, sfigurato (…)”.

Due temi da rintracciare: la concezione terapeutica del disegno e l’alienazione.

Questa reiterazione del ritratto è interpretabile anche in altri modi: presenza ossessiva dell’altro che abita il soggetto: il cangiante forma; variazioni fallimentari sulla ricerca della linea giusta, della parola giusta; sguardo ossessivamente rivolto al lettore come supplica, sfida, rinuncia; violazione e disconoscimento della sacralità dell’io. Richiesta d’aiuto.

Sono un tipo di poche pretese ma tra queste vi è quella di comprendere Poe e di somigliare in qualche modo al Maestro Usher. Se questo personaggio non somiglia a me, non somiglia a nessuno al mondo. Io lo rendo fisicamente e psichicamente concreto. (…) La mia vita è quella di Usher e della sua sinistra stamberga. Ho la pestilenza nell’anima e nei nervi e ne soffro. Esiste una qualità della sofferenza nervosa che neanche il più grande attore del mondo può vivere al cinema se non l’ha un giorno sperimentata nella realtà. E io l’ho fatto”.

(da Album Antonin Artaud, di Pasquale Di Palmo, Il ponte del sale 2010)

Lascia un commento