Mauro Germani: questa vita che trema di febbre

Mauro Germani, VOCE INTERROTTA, Italic 2016

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Credo che a volte ogni poeta debba fermarsi a chiedersi dove sta andando. Non vuol dire tradire la propria scrittura ma sicuramente sottoporla a tensione, portarla verso un luogo che non conosce, una domanda che non si è mai posto. Mai ancorarsi alle proprie certezze, ai trucchi del mestiere, e nello stesso tempo tenere ben salda l’intuizione delle origini, il primo segno rudimentale. Mai credere di possedere la sostanza delle cose, “il dono è una freccia nel cuore”, non una regalia.
“Il mio ultimo libro”, mi scrive Mauro Germani, intendendo “per ultimo”, un atto conclusivo, un approdo; ma anche un approfondimento, una “terra estrema”, recitava l’altra sua raccolta. Chi conosce la sua opera, potrà fare riferimento a una continuità, a una conseguenza – del resto ogni volta annunciata nei libri precedenti in forma di visione, di promessa -; chi leggerà per la prima volta, potrà conoscere i fantasmi che ci abitano, che abitano la parola.
Queste entità sono messaggere della promessa della fine, la sorte che abbiamo in comune con tutto ciò che ci circonda, sostanze materiali ed essenze spirituali. Ed è questa promessa, essenzialmente una escatologia, a costituire l’impalcatura di tutto il libro. Perché ogni poesia dovrebbe essere cosciente della propria morte, del proprio abbandono e della propria solitudine.
Si veda, qui, la divisione minima in capitoli: 1, 2, 3, INDIZI.

Io non so più le parole
a ridosso del mondo.
p.10

*
Adesso non credo più,
sono spiato in silenzio,
ho scordato le frasi.
p. 11

I pancioni sonori dei poeti da palco potrebbero avere da ridire: come può essere espresso, nello spazio teatrale di certa “poesia”, il silenzio, il balbettamento? E hanno ancora ragione di esistere il balbettamento e il silenzio nella cosiddetta rappresentazione sociale del mondo attraverso la parola?
Io credo che l’altezza non abiti l’invenzione di un verso abissale, vertiginoso, gnomico, tutti termini abusatissimi. Io credo che l’altezza consista nella dichiarazione di qualcosa che si possa veramente realizzare, che permetta un travaso tra l’intuizione del pensiero e il farsi dell’annuncio. L’ “alto” ha in sé la formula stessa della declinazione, del decadimento.

Mi sono dimenticato
sul tram
e adesso non so
dove andrò,
non so la città
che proclama
la vita.

Sparirò nelle luci
di tutte le sere,
nel cielo
di tutti gli specchi.

Sarò un secolo
che ha perso
il suo nome.

p. 13

Provate, provate veramente, almeno una volta nella vita, a dimenticare il vostro nome su un tram, a perdere la direzione, a non sapere più dove andare. A sparire, nelle luci di una sera. Che cosa succede? E’ la rivoluzione del deserto, l’abbassamento del furore tragico della violenza, della spoccheria dell’ego e della stessa parola. E’ lo sguardo aguzzo, indifeso e fragile che non sa più da che parte guardare, e che cosa si debba guardare.
Ecco i fantasmi, allora, i numeri delle case scancellati, l’apocalisse che già ci abita. Ecco lo scenario a cui tanti film di genere ci hanno abituati, riuscendo a dire del presente più di quanto possa fare un farraginoso trattato di sociologia.
Avere il nome sbagliato. Non essere più nessuno, noi stessi; scordarsi di tutti, una volta per sempre. Io non so se Mauro apprezzerà questa lettura “politica” del suo libro ma sta di fatto che in questo momento mi è necessaria come il Rimbaud negro, come Giovanni che urla nel deserto. Del resto, tutta questa febbre di profezia coincide, paradossalmente, con la cancellazione di ogni profezia e di ogni speranza; non per essere disperati ma per essere più onestamente umani. Per imparare ad abbassare lo sguardo di fronte allo splendore e riconoscere che siamo qui, figli di un mistero che s’infittisce sempre di più tutte le volte che ci facciamo una domanda, pretendendo persino una risposta.
Il Natale parafrasato da Mauro Germani è dunque una non risposta, una non attesa, una rinuncia, un esserci solamente senza alcun desiderio di sconfitta o di redenzione; il labirinto non più abitato dal minotauro, come ho scritto in altre occasioni.

Natale

Non so quando la stella
è caduta, quando
il mondo s’è spento.

Anch’io sono
un pastore perduto
e guardo il cielo buio,
tutto il vuoto
tutto il male
di adesso.

p. 17

Come non pensare a un Leopardi un po’ rovesciato, un più disilluso? O forse, più radicalmente, alla definitiva abiura di un pensiero che lascia l’uscio semi socchiuso alla speranza, all’inganno?
… Non si può negare che fare poesia vuol dire scrivere in primo luogo di se stessi, prima che degli altri; in una forma in cui gli altri sono già contenuti nella nostra stessa biografia: fratelli e nemici dentro la nostra specie. Il demone che combattiamo nella scrittura è lo stesso demone che vediamo negli altri, nelle loro invasioni e nei loro muri. Gli altri ci abitano, sono sempre a un passo da noi, pronti a irrompere oppure a lasciarci nella promessa di una solitudine. Noi li evochiamo perché comunque essi appaiono nei nostri sogni e la memoria del tempo non può dimenticarli.

Il tuo sguardo e quella
foto, quella casa
a un attimo
dal mondo.

Io ti abbraccio
come posso
e non so più la mia
povertà, il mio
regno di nulla.

Ti parlo e ti sogno.

Così.

p. 21

I fantasmi, ora, non sono solo presenze offuscate, immagini, ma, per un poeta, la sua più drammatica ossessione: sono le “voci”, la moltitudine, le legioni, le parole che si sono accumulate in migliaia di anni; tutta la nostra prei/storia, i nostri destini nel tempo:

Sono tornate le voci
e dicono fai presto
fai presto tu che non credi
ai mattini, conta ogni
molecola, ogni supplica
nella paralisi del buio,
qui
al centro del petto,
adesso che sei nostro
e ci ami,
ci ami ancora
come un bambino.

p. 25

Sono i morti, i non nati, “gli affogati”, il taglio che “piange / piange in silenzio, piange / per tutti”, p. 27; “i visi / che passano soli”, p. 30. E, infine, “quella poesia / che nessuno mai scrive”, p. 33.
Mauro Germani sembra, dunque, aprire la parola ad ogni possibilità, accoglierla nella sua forma incarnata e sempre come una promessa, la possibilità di un figlio.
Se la sua parola rimane volutamente, per temperamento e formazione, al limitare del silenzio e della dissoluzione, egli probabilmente sa che “dopo” ci sono tutte le parole del mondo, tremanti di tutti i tremori della vita.

Tu non lo sai ma adesso
sono con te nella
lontananza
e ti dico abbraccia, sogna
ancora queste
anime spoglie e perdute
queste città buone di vento
e di freddo,
queste luci appese
come piccole gemme
baciate dal nulla,
questa vita che ancora
trema di febbre
e di vita,
come fosse nostra
come fosse per noi
ancora per poco.

p. 35

C’è anche la possibilità che queste parole non abbiano mai avuto un nome, “tutto cerca un nome”, p. 38; “i caduti senza nome / e senza riposo”, p. 37; i fiati senza corpo, le scritture rimaste nel respiro del poetico, non nella forma della poesia: “la tua voce ignota, / il tuo nome lontano / portato dal nulla”, p. 40.
All’inizio di tutto questo c’è sempre l’infanzia, quel momento memorabile per ogni poeta in cui egli cerca di fissare per la prima volta qualcosa che già non sente più, che c’è appena stato.
Ecco perché l’idea della voce ci appare così misteriosa, così difficilmente comprensibile. Perché essa si è presentata prima di possedere le parole da dire. Così, quando un poeta parla delle cose che lo circondano, nell’estrema concretezza del dire, egli avverte anche il timore della resa, l’immane compito di raccontare della polvere.

Chissà cosa vidi
nel salto, nel lampo
feroce, quale
attrito, quale pianto
mi accecò
nella carne
e mi chiamò senza
nome,
mi prese per sempre
appena arrivato.

p. 60

Nell’ultima sezione del libro, INDIZI, poemetto delle verità presunte o degli osservatori osservati, leggiamo del tema dello specchio, dell’essere, forse, defunti di qua e vivi dall’altra parte. E di essere desiderati e desiderare. Evocazioni del narciso mondo, il mondo che si desidera e si conosce; del Rimbaud ragazzo che immagina le profondità davanti a un laghetto di città; di altri miti e riti che hanno a che fare con lo sguardo, col desiderio di essere guardati, compresi, capiti… I fantasmi evocati all’inizio non sono più gli altri ma noi stessi, abitatori di una drammatica duplicità nella terra di confine in cui qualcuno ci ha abbandonati. Dentro i confini di noi stessi.

sono io l’impiccato
del cielo, io
la corda appesa
sotto la luna, la voce
interrotta dal vento

sono loro gli anni
che ho soffocato
nel petto, loro
le mani che hanno
stretto la gola

sono io
sono loro

siamo noi
i vivi
e i morti.

p. 71

Sebastiano Aglieco

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