Riassunti: Mauro Ferrari

Mauro Ferrari, IL LIBRO DEL MALE E DEL BENE, POESIE 1990-2006, puntoacapo 2016

Credo (…) che scrivere poesia, come e più di ogni forma artistica, (…) sia un’operazione razionale e abbia a che fare con la nostra capacità di strutturare il mondo in cui viviamo, per dargli un senso – quanto più esso sembra sfuggire a ogni ricerca di senso. (Mauro Ferrari in una nota).
È una dichiarazione che chiarisce il senso dell’operazione di Mauro Ferrari e che soprattutto ci restituisce il clima degli anni in cui è maturata la sua opera, clima di polemiche a volte fruttuose, ma anche resa dei conti tra una visione essenzialmente ermetica e profetica della poesia e un abbassamento tonale che sembrava ormai necessario.
È in effetti dentro questa normalizzazione semantica che si sono formate le voci più interessanti dell’attuale panorama; persino poeti influenzati dall’ermetismo degli anni settanta e ottanta
– almeno quelli più avveduti e intelligenti – sono riusciti a recuperare una complessità derivata dall’esercizio di più modi, da un sguardo saggiamente disilluso sulle sorti della parola, eppure disponibili a un’apertura di senso, alla predisposizione di uno spazio più accogliente, senza per questo cadere nella banalizzazione del quotidiano, della parola piccola, del minuto realismo.
Concordano i critici riuniti nel libro a testimoniare gli esiti della poesia di Mauro Ferrari:
“A essere privilegiata è la componente cognitiva, la dinamica del cercare…”, (Roberta Bertozzi).
“Nel progetto di Ferrari (…) sembra che urga il ripristino di un rapporto circolare corretto tra soggetto e oggetto, soggetto e mondo”, (Giorgio Luzzi).
“È un io povero, cosciente della propria condizione, ma non sconfitto o rassegnato, e anzi determinato ad affidarsi fino in fondo all’unico bene che gli rimane: la vista”, (Fabio Pusterla).
“Resta la poesia come una forma di resistenza, di autoanalisi, di interrogazione, di rabbia e di contorcimento, una poesia che magari ci fa considerare la ‘malattia’ del tempo come un enigma caro e inevitabile, e che accompagna fatalmente il nostro passaggio”, (Luigi Fontanella).
“Non una poesia di emozioni soggettive, di esibiti lirismi, ma che si impegna a decifrare il mondo che si dà ai nostri occhi”, (Giancarlo Pontiggia).
“Si può parlare di poesia etica, ove per etico s’intenda il senso da dare alle nostre azioni e ai nostri pensieri, attraverso una formalizzazione non categorica, non dogmatica”, (Rosa Pierno).
“Diciamo che la poesia di Mauro Ferrari tenta l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale”, (Giorgio Linguaglossa).
“Per Ferrari la poesia è fonte e insieme forma di una conoscenza che è scavo nel reale, creazione di cunicoli e passaggi: certo il ‘bene’ non riesce a vincere la tenacia e il perdurare del ‘male’, (Gabriela Fantato).

Così scrivevo io in “Radici delle isole”:

Nell’evocare i poeti amici ai quali sono dedicati alcuni testi della raccolta, Mauro Ferrari ci suggerisce la necessità di una koiné linguistica, un salto della parola rispetto ai decenni appena trascorsi, capace di abbracciare il mondo, di farsi carico delle sue stimmate. Il libro, quindi, si situa nell’aspro dibattito di questi anni. Ecco, allora, le occasioni della vita – vera musa – con tutti i suoi splendori e le sue miserie. La poesia sviluppa la sua forza, il suo progetto, che riguarda la necessità: «Parla poco se devi, / scrivi se davvero preme». Spesso sentiamo in questi versi lo sforzo di farsi capire, di venire incontro, assumendosi il rischio della dissertazione, della predica. Ma è ciò che compete a ogni poesia, che in questi tempi è possibile solo nella contaminazione tra il soggetto e il mondo, nella ricerca di un equilibrio, un punto di sutura, dolorante, dal quale sia possibile guardare ed essere guardati. È il nostro stato ontologico, che tuttavia Mauro immagina come un punto di partenza, la sfida del poter essere altri, per comprendere e superare il mistero, «nato altrove, dalla sintassi complicata delle stelle». Lo stato di questa poesia è l’essere vigili e attenti, scrutare gli infiniti segnali che la vita ci manda, interpretarli come immagini di un destino possibile; oltre la casualità degli eventi che incombono come segni della potenza del mondo, del mistero della natura. Poesia è dunque memoria, memoria personale e collettiva che si intreccia, giocandosi le proprie sorti e forse il destino del mondo. La parola non è mai totalmente privata; essa ha il compito di arginare l’intrusione del male: «il bene della vista e il bene della vita nel suo male / stanno su questa corda tesa, in equilibrio». Il poeta deve accettare la dura legge dell’abitare il mondo; non si tratta di negarlo emigrando verso un’improbabile arcadia, quanto piuttosto di trovare il farmaco che allevia, il senso di una comunanza con le cose e gli esseri tutti. Nel testo che inizia “Quella volta strappammo un pareggio”, la descrizione di una partita si conclude con un vero rito religioso di comunanza in cui il riso e la gioia sembrano suggellare una fratellanza. Perché c’è una bellezza nei corpi che si toccano, e condividono un luogo: «E pareggiammo, rientrammo negli spogliatoi / ridendo, / facendo festa povera, tornando a casa, / tornando a casa».

I prodomi di questo percorso sono già delineati nei ritratti delle figure di Francesco Stilita e Proculo, “personae a metà strada tra lo storico e il simbolico”. Il primo, dice Ferrari, “è l’attore da subito consapevole di una tragedia storica e cosmica, mentre Proculo (…) prende man mano coscienza di ciò che lui stesso rappresenta, pur restando incapace di reagire e portando su di sé la sofferta consapevolezza del Male”.
Il primo, dunque, sembra suggerire il parallelismo tra un “ambiguo spiritualismo panico” e una parola che si introietta, chiusa e bastante a se stessa; il secondo la tensione del non saper agire, del rimanere invischiato in una non scelta e di non permettere alla parola di dire, di abitare il mondo.

(…) Pure,
ai suoi tempi scrisse
grande poesia, parole
sicure in rime precise,

versi leggeri ed agili,
una poesia “di cuore,
non d’intelletto”. Fragili
detti d’amore e onore

schiantatisi sul marmo
strenuo della vita.

(I libri di Proculo)
p. 27

*

Mi tuffo dentro a me –

precipito
nel sangue, attorno
Antichi che implorano una grazia
il cui senso m’è duro

bastardo di altre lacrime

ben saldo il piede sul morbido
corpo del fratello Abele
le mani ancora lorde
disperatamente avvinte
a polvere e fango,
a un atomo della mia cengia.

(I giorni e le opere di Francesco Stilita)
p. 50

Sono da leggere con attenzione queste due sezioni della raccolta AL FONDO DELLE COSE, (1996), con la quale, tra l’altro, Mauro Ferrari decide di far iniziare l’antologia epurando il libro di esordio, FORME, (Genesi 1989), e decidendo così di mettere l’accento sul significato politico di una poetica interessata a cogliere una sete di comunicazione. Il polemos, allora, finisce per vincolare il risultato estetico al pensiero, a un’idea di estetica.

Ciò che si annida
al fondo delle cose
sotto la carne
più in basso della carpa
silenzioso abitatore
di tane improponibili
è il rombo cupo del tuono
che sovrasta la mente
e non un Verbo che si dica umano:

e incomprensibile discorre
tra le cime estranee
dove si pascono
di piaceri e nostre pene
Dèi superni e alteri
sotto forme note visitando
di tanto in tanto i nostri luoghi,
meravigliati da tanto corpo in così poca mente.

p. 60

In questi versi Ferrari sintetizza e accoglie il pensiero poetico più alto del secolo appena trascorso, approdando alla cosa in sé attraverso l’esempio di Rilke. È un risultato che accomuna la storia della poesia degli ultimi decenni, e cioè quelle esperienze capaci di svincolarsi dalle secche di un realismo stantio, privo di pensiero.
Fa bene Antonella Bisutti a citare Foscolo, “poeta dalle due anime contraddittorie, quella illuminista e quella romantica, e certo Ferrari se ne sente attratto nel suo stesso tentativo di comporre una profonda passione del pensiero con l’effusione naturale di un sentimento malinconico”.
Pensare la realtà, dunque, vuol dire formarsi una precisa idea delle cose, andare al fondo delle cose, per scoprire che nessun dio ci salverà dalla nostra solitudine, dalla nostra ignoranza. Ogni vera poesia conserva nella sua sostanza più intima un fondo di francescanesimo, un desiderio di approdo, almeno momentaneamente, in una terra che ci rinomini e ci consoli.
Sebastiano Aglieco

I RICORDI

Tornano da mille direzioni i viaggiatori,
i dissepolti che sfigura la bellezza,
riemersi dai fondali alti del tempo
e dalle lontananze, dai confini. Si sfalda
d’improvviso l’orizzonte prevedibile
e s’insedia un territorio
di sentieri e bivi, volti rimossi oltre lo specchio,
ombre che convergono
nel cuore e sulla pagina
oscure come un masso
esposto al nord, muscoso. E sei
una caverna, di fronte a volti
che in te giungono a morire
come una distorsione dello specchio.
L’affanno di trascrivere una mente gonfia di visioni!
Prima del buio, al poco di lume, tuffarsi nella gioia
illusa di descrivere il sorriso
che deturpa ultimo la smorfia
al moribondo che già spera e ancora spera…
p. 141

PROMO

Lascia un commento