Nadia Agustoni: la clausura dei muscoli

Nadia Agustoni, TACCUINO NERO, Le voci della luna 2009

Ci sono versi brucianti in questo taccuino di Nadia Augustoni, quaderno di appunti, certo, ma senza mai rinunciare alle esigenze della poesia: quella pura, immediata, di un poetico disilluso e amaro, l’altra, storicizzata, di un sentire l’esperienza della parola come rottura dei costrutti, modalità qui utilizzata in funzione ironica, di smontaggio, con risvolti, poi, di ordine metaforico: Smontiamo, la faccia è un dado.

Augustoni sa, ha imparato, dopo il tramonto degli ideali e delle utopie, che le parole non cambiano il mondo, ma, d’altronde, non possono rinunciare a dirlo: «perché il mondo non cambierà,/non un’altra volta, non per noi». Così Augustoni convoca davanti a questo taccuino nero, un pubblico che non sa niente di niente della clausura di muscoli, delle cervella messe al tornio, della balbuzie di avambraccio. Soprattutto non sa nulla di quello che avviene nella casa interiore: «La cenere è più vera di questi muri/un bruscolo soltanto riempie la morte/moriamo poco, ma poi non è vero/capita che moriamo di slancio tutto in una volta,/ci succede di pensarci tra giorno e sera/con piccole malinconie».

Assistiamo a un alternarsi di interni/esterni, ritratti di un cuore di bambina e improvvisi squarci di paesaggi di periferia, bellissimi, descritti alle prime luci dell’alba o sul far della sera. Alte mura incombono; piccoli alberi senza foglie, nel cortile accanto; il guaito di un cane. Su tutto questo essere dolente, si staglia la figura di una bambina operaia, che per resistenza si racconta la storia di Alice, con i giorni timbrati e l’infanzia dentro.

E poi si esce dalla fabbrica, si abita il mondo. Il paesaggio appare trasfigurato, come se non si potesse guardare che attraverso i ritagli di una finestra malandata, lo stipite cadente di un cancello da archeologia industriale. Così vediamo la campagna lombarda, l’orizzonte prossimo, brumoso di nebbia, le sue voci. Un paesaggio visto nei sabati e nelle domeniche delle pause, dove si descrive il vento veloce, le tracce degli animali buoni e ignari, come in un desiderio di ritorno verso l’infanzia, quando le tracce degli uomini sulla terra conducevano al pane, alle cascine, all’acqua delle rogge e dei canali.

La seconda parte di questo diario, allora, innesta la fabbrica nelle dirette conseguenze della sua presenza sul territorio; e cioè di quelle trasformazioni avvenute brutalmente in funzione delle necessità della Storia e dell’Anima. «Ogni giorno penso che è lo stesso, domani com’era ieri/e mi volto non per guardare, ma contando i passi che mancano all’infinito». Questa sostanziale innocenza dell’essere di fronte ai grandi cambiamenti, umanizza il racconto nel senso di un’epopea non più comunitaria ma privata, amara riflessione sull’immutabilità e sulle occasioni sprecate; anche delle parole.
Sebastiano Aglieco

4 commenti

  1. Recensione che affascina. Sembra un libro da leggere assolutamente. Grazie della segnalazione.

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  2. Grazie Sebastiano di questa lettura.
    Alcuni passaggi mi hanno commosso, anche se non dovrei dirlo.
    Ti segnalo un refuso nel mio cognome che è Agustoni.
    Un saluto. nadia agustoni

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  3. ciao Nadia, grazie a te della tua scrittura, che nelle descrizioni del paesaggio tocca i suoi vertici, mi sembra. Correggo subito il refuso. Sebastiano

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  4. E’ un libro da leggere, se si vuol leggere buona poesia.
    Bella recensione, bel libro (scusate la banalità e la ripetizione, ma sono di corsa e nonostante non potevo non intervenire)
    Liliana Z.

    )
    ciao
    liliana

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