Mario Fresa: GLI SVENIMENTI DEL LETTORE

Mario Fresa, SVENIMENTI A DISTANZA, Il Melangolo 2017

Una delle tentazioni più forti che vengono leggendo questo libro, è quella di metaforizzare l’oscuro, il non detto. Quella, cioè, di trovare appigli interpretativi, di aggrapparsi al filo bidirezionale della comunicazione che tradizionalmente ci conduce dalla cosa alla parola, dalla parola alla cosa.
Questo filo, a ben vedere, esiste, ma è trasparente, del tutto disinteressato a indicarci una via, a metterci in guardia dal non precipitare nell’abisso dell’incomprensione.
Ecco, insomma, l’ampolla mercuriale, “ermetica”, nel senso etimologico, di Hermes; custode di immagini contenute “dentro”, la cui presenza/esistenza è percepibile solo nella separazione che la parete di vetro mette in atto tra la cosa/fatto e lo sguardo, nel silenzio di una comunicazione senza parole.
Autonomia del significante… ma è una trappola. Perché, dicevo, nel libro di Fresa, questo filo d’equilibrista esiste ed è da intendersi come costruzione autonoma di un “altrove”, “racconto musicale”, ben dice Eugenio Lucrezi nella presentazione.
Racconto che procede per autonomia significativa, scritto nell’altra lingua che sottintende la lingua, un sottotesto diffuso, simile alla lingua del sogno, precipitata al di qua dell’orizzonte dell’alba e riconsegnata allo stesso poeta da quella misteriosa facoltà che chiamiamo poesia.
E’ anche, questa, lingua partitura, altro medium, come la musica e la danza. La conseguenza, allora, è un’evidente sfida alla lettura, non più, come avviene, attivazione delle sinapsi tra esperienza personale e stimolazioni del testo ma camminamento verso l’altrove del testo, il paeaggio che il testo contiene in sé.
Del resto, la tradizionale strategia di lettura bidirezionale, mi sembra sia scoraggiata dallo stesso Fresa leggendo le sue “note e istruzioni per l’uso”; “BUGIARDINO”, in verità, le chiama, corollario ambiguo che, se da una parte vuole testimoniare l’esatta corrispondenza tra il testo e la sua fonte “terrena” – forse nello stesso rapporto che accomuna poema sinfonico e didascalie – d’altra parte incunea nel lettore il dubbio di un ulteriore depistamento.
E’ baipassata, allora, persino la funzione interpretativa del critico il cui lavoro sembra ridursi a uno svenimento a distanza, percorso sciamanico di dislocazione, unica via per addentrarsi nell’universo di un’Alice meravigliata e forse ferita.
Il paragone finisce qui, però. Perché il dolore come oggetto intertestuale del libro è attestato, probabilmente per una maggiore conoscenza delle cause interne di questa scrittura, nella prefazione. Il dolore sembra essere la causa di un arroccamento difensivo che della narrazione operistica trattiene il recitativo, censurando i momenti caldi delle arie e dei concertati, riservandosi la pratica di un declamato un poco pungente e ironico, sicuramente amaro, disilluso.

(Sebastiano Aglieco)

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