Mauro Ferrari su un recente libro di Ivan Fedeli

 Ivan Fedeli, Gli occhiali di Sartre, Prefazione di Elio Pecora, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 112 € 15,00 ISBN 978-88-6679-074-7

copertina-fedeliGli occhiali di Sartre di Ivan Fedeli (raccolta di recente vincitrice del S. Domenichino) prosegue quella vera e propria indagine sulla vita (lasciamo per ora da parte aggettivi come metropolitana, moderna ecc.) condotta tramite lacerti narrativi che è la caratteristica saliente di questo poeta; e la prosegue tramite uno sguardo ancora più acuto e dettagliato, che dal cannocchiale di Campo lungo sembra osservare più da vicino; con gli occhiali che un filosofo strabico usava per “raddrizzare” la vista.

La prima domanda che mi pongo, aprendo il libro è: Come leggerlo? Che libro è, che poesia è? Non tanto per incasellarla, quando per accordare la lettura allo spartito. Poesia narrativa, senza dubbio, che si impernia su un endecasillabo modernissimo perché concreto, che non teme di parlarci di “quattro carciofi” e rifugge il poetichese – perché qui sarebbe del tutto fuori luogo: non c’è una vita da innalzare al sublime, ma tracce di vita da cercare e riportare alla luce, mettendole sotto la lente ma, anche – e qui sta il punto – in una luce piena che è anche gloriosa. È poi poesia con una chiara impronta poematica, una poesia di tableaux vivants, di scene che sembrano trapassare a volte le une nelle altre (Elio Pecora parla di “ritrovamenti”): ogni storia (si veda già nel titolo la sezione Storie di passaggio) è condotta tramite brevi scene imperniate su una immagine, una figura colta in un momento esemplare. Ma esemplare di cosa? – ed è questa la domanda che ci conduce al cuore del libro. Credo che sarebbe banale parlare di tragedia che si svolge per “gente qualunque” e ovunque (cito da p. 16, rifacendomi ancora alla splendida prefazione di Pecora). Certo, abbiamo reperti come “sconfitta indicibile”, proprio nel primo testo; e sarebbe facilissimo moltiplicare gli esempi di sconfitta, abbassamento della vita a una esistenza minima in cui “Manca un presente” e “tutto [è] sempre uguale (p. 22) mentre la città – non solo la gente, gli altri, ma proprio lo sfondo metropolitano – sembra un osservatore immobile e spietato. Se manca un presente, aggiungo, è ovvio che il passato si è sbriciolato nel nulla e non ne resta che un eliotiano “cumulo di immagini infrante”; immaginiamo poi quale luminosità possa avere possa la prospettiva di un futuro – punto su cui però vorrei tornare…

È un libro complesso, e faccio due esempi. Dice Alessandro Quattrone, in una acutissima nota apparsa su carteggiletterari.it:

Nel poeta non sembra esserci alcuna intenzione di trovare simboli o allegorie nella realtà, nessun impulso a risalire ardue chine metafisiche: gli basta il mondo così com’è . . . dove ognuno sa di avere una biografia irripetibile, e invece appare come una persona qualsiasi; dove ognuno si sente unico e invece è uno dei tanti.”

Vero. Ma è vero anche l’inverso, e Fedeli ci fa intravedere una possibile via di uscita o salvezza almeno parziale, un mondo in cui tutti condividiamo la stessa inanità, ma in cui possiamo restare noi stessi (“e ci si accontenta di questo mondo”, p. 52).

E ancora Quattrone: “Siamo di fronte a un realismo minimalista”; vero che Fedeli è attentissimo all’osservazione dettagliata, ma credo che qui ci sia anzi l’obbiettivo opposto, per quanto sempre riconoscibile in una area di poesia lombarda, di lettura globale della realtà, di visione onnicomprensiva.

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Tragedia o commedia? C’è tragedia, certo, quasi sempre implicita in questo vivere nel nulla e andare in nulla; però è qui che scatta la nota più tipica di Fedeli, che non si ferma a una riaffermazione di una Waste Land al cui termine il tuono non porta pioggia ma risuona quasi a monito, o al massimo come speranza irrealizzabile. No: Ivan Fedeli non ci parla di una pioggia vivificatrice, per restare in un solco eliotiano che appare però sempre meno percorribile, ma di vite assuefatte all’aridità, di sopravvissuti che comunque cercano di orientarsi nel deserto, e forse a modo proprio ci riescono.

A modo proprio, sottolineo: ognuno mantenendo una propria fiera individualità. Se le guardiamo da vicino, abbandonando il cannocchiale e forse aguzzando la vista in un primo piano primissimo, vediamo creature che immaginano, sperano, costruiscono; forse cose senza senso, castelli nella sabbia, “riparazioni poetiche”, credendo in un ideale minimale che è quasi un gesto disperato, ma mantiene in vita e impedisce il crollo. La piccola Parigi, il Lambro che diventa quasi la Senna, il San Raffaele che permette di pensare al Louvre (p. 28). E non è soltanto un fingersi altrove, o un altro, un escapismo in una parola. No: qui si parla di “piccoli campi elisi” (il balzo dalla terrena Parigi alla visione paradisiaca è chiaro), di “arco di trionfo dei poveri” (p. 30). Prendiamo La signora Lodi (p. 22), che “ha tanta vita / per sé quando scorge il mondo passare”, e che si accontenta di pensare a Vivaldi. Miseria e nobilità, insomma, il riscatto minimo ma concreto di quelli che “sognano la vita buona e una casa” (p. 74) o del cassiere che può dire “ecco esisto anch’io” (p. 35). Che è una frase shakespeariana; il contrario del Prufrock eliotiano. In queste vittime non rassegnate c’è capacità di astrazione, cioè di immaginare, di portare avanti questa vita con la concretezza dei sogni, piuttosto che cadere preda alla disperazione; una vita “dove ogni cosa rimane possibile” (p. 55) e quindi fino alla fine – che è comunque tragica per tutti – la nota chiave è quella della commedia, gestita con la levità dello sguardo empatico del poeta.

Il “diritto ai sogni” (p. 40) va coltivato, ma qui non è fuga dalla realtà, bensì ricerca di un ideale praticabile, direi, di chi “vive la vita e basta” come il Sergio del bar, personaggio davvero gaberiano, per cui “il domani non ha / prezzo” (bellissimo enjambement!). Vediamo le mamme che rubano “dieci minuti / al giorno che bastano a essere felici” (p. 39) e una galleria di personaggi che innerva il libro di vita e di vitalismo; perché è questa la parola più appropriata: “l’intenzione del futuro” (p. 41); “la fatica buona / della formica” (p. 43); L’“idea che / gli anni migliori arriveranno prima / o poi”: e qui i due enjambement sono straordinari…

Certo, questi personaggi sanno bene la loro è “la vita senza cielo”: è il “mondo sotto” (p. 67) quindi un mondo alla rovescia, il mondo dei morti e dei folli. La sezione eponima presenta un ambiente quanto mai tipico e persino simbolico per un milanese, la metropolitana; ma resta quella quota di ottimismo indistruttibile, persino un po’ patetico se non fosse tanto utile a esorcizzare la tragedia. “Pensano non sarà così per noi” (p. 62) e ci appaiono sì vittime chiarissime, ma non proviamo rabbia, siamo bagnati dalla luce della tragedia ma lasciamo la rappresentazione in pace, con le nostre passioni riequilibrate.

Finché c’è vita c’è speranza, recita un vecchio adagio che capovolgerei pensando all’umanità ritratta da Ivan Fedeli: finché ch’è speranza c’è vita. “E ci si accontenta di questo mondo” (p. 51): chiudo citando questo verso perché racchiude tutta la semplicità possibile in un endecasillabo naturale come il parlato al bar, come quel Teatro naturale (puntoacapo 2010) che inaugurava questa poetica. Come dire: il poeta non è un fingitore, anche troppi lo danno per scontato, magari senza meditare sul resto, su quel dolore che davvero sente: perché sappiamo bene che il poeta è il più realista di tutti.

Mauro Ferrari

Un commento

  1. Ivan me lo porto nel cuore da quando ho avuto la fortuna di conoscere la sua attenzione verso le cose sensibili, perciò gli auguro soddisfazione e gioia per il mestiere di Poeta che esercita con grande delicatezza e generosità … con grande umiltà!

    Ciao Ivan 🙂

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