Paolo Pistoletti: la mancanza ricompone tutto…

Paolo Pistoletti, LEGNI, Ladolfi editore 2014

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Mi prende la commozione, (sono un critico se lo dico?) a leggere questa opera prima di Paolo Pistoletti, come a volte mi è capitato per pochi altri libri. Un modo, certo, che non tutti i libri permettono e che non rappresenta di per sé una chiave per entrare in tutti i libri. Ma è certo che la poesia può mostrarsi in forma di musa, imbavagliata dai suoi rimandi a immagini iperuranie, alla ricerca di una bellezza astratta, senza braccia e gambe, e occhi, e orecchie e lingua. Oppure dotata di uno solo di questi mezzi, enormemente amplificato, condannato a percepire ossessivamente il sé solo in una limitata banda di sequenza.
Eppure c’è un vasto mondo di poesia “onesta” che riesce a parlare agli altri, a porsi in funzione di specchio: o filtrando il proprio mondo nel Mondo, restituendolo con modestia, con parole che cercano un senso, imparando ad osservare, a guardare attraverso le cose, soprattutto a non sacrificare per partito preso, l’aspetto emotivo della parola; oppure mantenendosi bassa, senza mai rinunciare a una visione universale – siamo sempre iscritti in un “codice terrestre” per citare Gabriela Fantato, o nella logica dei dodici segni zodiacali, (Luigi Cannillo), o in uno sguardo comunque buono (Corrado Bagnoli) –
Molte altre citazioni potrei tirare in ballo per costruire una mappa, (non un canone, per carità) una mappa di senso capace di riassumere tutti quelli che negli altri siamo stati.

Legni

Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.
All’ospedale di Careggi c’è il bianco
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a restare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non  è più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.

Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro
moltiplicato per sempre sia l’eternità.

Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001
p. 25

Il pensare, qui, è minimo ma profondo, – essere minimi, vicinissimi alle cose, l’unico modo per essere profondi -. Che spesso vuol dire lottare contro il rischio di sprofondare verso l’innominabile dell’anima e delle stelle. Qui, per mostrarsi vicini, bisogna nominare la propria casa, i figli, il padre, i vecchi…

Pensare

Alla fine quando sono qui rivedo
la giornata trascorsa
le persone le sedie gli alberi.
Ecco è tutto qui il mio pensare,
come in auto quando dallo specchietto
alle spalle vedi che passa dietro
la strada, e allora lo senti
che a reggerti sulla schiena
è tutto quello scorrere
quel grande fiume di asfalto
e mondo che ti porta
dritto a casa
fin dentro al garage.
Lì dove c’è sempre
una serratura da girare
lì dove in punta di piedi
sottili si passa per quell’unico
punto che conta.
p. 29

Pub

Il pub vicino a casa apre
quando i nostri vecchi chiudono i battenti.
Il braccio teso una maniglia una porta
e poi un ingresso verde
che se spingi forte
superi una soglia.
Ed ecco le cose e le persone
chiuse dentro come fili elettrici nella guaina.
Dentro c’è il buio pesto della gente
la notte abbottonata che non esce
tra i litri di fiaccole e i bicchieri
ammucchiati sui tavoli
le cameriere sollevano bottiglie e vetri
come lanterne
sopra le tovaglie le facce
truccate da niente
come in montagna il freddo
quando è così tanto
che non si sente.
Ma è tardi stavolta
quando qualcosa sfiora le spalle
e dalla porta un padre entra.
p. 31

Ecco, è tutto qui il pensiero: aderire, sentire, per contatto, ciò che sentono gli altri, la stessa guaina di dolore che permette di non sprofondare. O sprofondare insieme.
Per fare questo occorrono radici, occorre il padre, anche quando se ne è andato.

…………………………………………
E laggiù oltre il blu mio padre
che con la schiuma sui capelli
è l’onda più grande che c’è
che ha fatto come due gocce me e mio fratello
con mia madre controvento
su tutto questo sale
che conserva tutto sotto
mentre a noi bambini
gli occhi ancora ci bruciano.
p.33

È, come si vede, un’ immagine gigantesca del padre, eppure quanto reale, quanto vicina ai nostri ricordi.
Occorre una casa a queste poesie, soprattutto una finestra.

Alla finestra

La fronte sul vetro
il grigio fuori e questo viso d’acqua.
Mia figlia alle spalle
che cresce con la febbre.
Quanti pensieri sul tetto di fronte
si lavano pronti per la pioggia,
e quanti vanno via
nelle grondaie dentro le vene
nei prati e negli occhi di chi ho conosciuto.
E quanto
tutto questo asciugarsi di legni
ci somiglia.
p.21

Occorre uno sposo, uno sposa; comunque due che si vogliano del bene; una voce bassissima che non è pensiero debole, ma forza del seme che spunta dalla terra e vuole vivere. Per sé, per la propria momentanea gloria. Per gli altri che deve nutrire.
Scrivendo, mi accorgo che queste parole sono condotte da un sentimento, ed è l’unico modo che ho veramente per scrivere.
Eppure, scrivere è anche trapassare, travasare, giungere da un luogo, passare in un altro. Fare in modo che lo sguardo si faccia ferire e che la ferita sia sempre dono per la scrittura; è aprire la camicia e mostrare il petto, e la gola, fare in modo che le nostre parole non esercitino alcun potere, capaci di spogliarsi perfino dell’odore sontuoso della vita quando il narciso si appressa alla sua fine.

Stazione

È come di mattina presto alla stazione
quando resto sempre un po’ indietro sulla schiena
non riesco a farmi sotto come fanno gli altri
in faccia a tutto quel che passa
tra le porte gli interstizi i finestrini scorrevoli.
Per chi come me guarda e basta
il buio è come uno scacco nero prima della mossa
assomiglia alla gente che cresce piano nella folla
come una macchia che s’allarga
contro il bianco delle luci del bar
che gira tutta là lontano sui vetri
col gelo intorno che sembra il nord del mondo,
mentre io qui fermo tra tempia e tempia
con un biglietto un treno un binario
nei secoli dei secoli per sempre lontano qualcuno che mi aspetta.
p. 51

Per fare questo bisogna imparare a scrivere come si parla, come faceva Jahier nel canto della sposa, Pavese anche; che vuol dire non dimenticarsi chi siamo, da dove veniamo, quali sono i nostri debiti e qual è il dovere di restituire al mondo qualcosa che non sia solo nostro ma di tutti. Perfino il nostro stesso dolore.

Come un fiume mia madre scorre piano
una dopo l’altra le foto sopra al tavolo
risale i ricordi fino al fondo dell’argilla.
E sembra più bella adesso che la guardo
un’impronta sulla sedia che non sa niente,
poi la voce che si incrina con tutti quei nomi
come acque che si rompono dopo il bene.
p.57

Sebastiano Aglieco

 

9 commenti

  1. Davvero belle! Ho letto con grande interesse e partecipazione. Avercene opere prime così.
    Poesia che non si mette il trucco ( come dice Corrado ) e per fortuna…
    Tanti auguri di buona Pasqua a tutti voi e un saluto e tanti auguri anche all’autore, che ringrazio insieme a Sebastiano.
    Christian

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  2. Grazie Sebastiano per questo tuo generoso lavoro critico e poetico. Grazie per questo cercare in te e negli altri, come in un circolo continuo, quello che in fondo e al di là delle parole ci accomuna tutti. Sennò a che servirebbe tutto questo affannarsi nostro?

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  3. Grazie Christian, grazie davvero per le tue parole. Anche a me la poesia interessa se è senza trucco. Se è come un pensare-sentire concentrato sempre più forte sulle cose. Una forza che dopo trova immagini semplici, e alla fine parole semplicissime. Ecco questo è quello che mi interessa. E sono davvero contento adesso qui, insieme a tutti voi.

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  4. Leggo queste poesie solo qui, purtroppo non ho il libro, non ancora, ma anche solo per questa piccola scelta di testi sono davvero grato. A proposito di questi versi, dei quali fa bene Sebastiano ad innamorarsi, mi viene in mente che la lingua ebraica ha una parola per indicare la misericordia che vuol dire più o meno doppio utero, doppia accoglienza: l’accoglienza, la fedeltà che si apre all’altro, che trascende il dato e pone la possibilità di un nuovo senso, che dà alla luce, è forse questo il modo in cui la poesia è fedele alla realtà e si apre a un destino che va oltre questa stessa realtà. E’ forse così che essa diventa poesia davvero, e dunque poesia metafisica: Pistoletti è la manifestazione più chiara di quello che intendevo segnalare in un mio precedente intervento su altro post. Sbaglia Sebastiano ( anche lui talvolta!) quando parla di pensiero minimo ma profondo: no, in questi versi il pensiero è all’opera dentro la materia dei giorni, la carne è lo splendore del cuore ( nei giorni di Pasqua, poi, questo sembra ancora più vero!) Il pensare poetico avviene così e non in altro modo. E quando fiorisce così tiene insieme, diventa davvero l’offerta a me di un mondo che riconosco. Di un compito comune. Grazie.

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  5. è proprio una sensazione di commozione, quella che si prova leggendo questi versi, mentre ci si addentra nel mondo sofferto del poeta, che ci lascia toccare i suoi pensieri, dove mi sento accarezzare dal bene di figure come il padre, la madre, gli sposi …
    è un percorso che mi fa pensare a quanto sia prezioso mantenere uno sguardo, sereno verso ciò che ci accade, sia esso bello o terribile…c’è uno sguardo sereno non rassegnato, dolce…ed è la tenerezza che arriva dritta al cuore.

    concludo con questa sua bellissima frase:

    -essere minimi, vicinissimi alle cose, l’unico modo per essere profondi -.

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  6. Grazie a tutti dei commenti per un libro che merita. Scrivo veloxemente da un posto dove non c’è linea per dire a Corrado che per pensiero minimo intendo unpensiero che sa stare umikmente vicino alle cose e le accomoagna, mentre lui, conoscendolo, pensa al minimalismo. Certo, le cose sono anche capace di sfuggire e a volte dobbiamo inseguirle. Seb

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  7. “stare vicino alle cose” è in un mio testo che mi è particolarmente caro. E qui trovo quel soffermarsi sulla fragilità e sulla ricerca umani, un linguaggio che accoglie e coinvolge, una ferita.
    Liliana Z.

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