Stefano Guglielmin: Ora, torna indietro, e rileggi

Stefano Guglielmin, C’E’ BUFERA DENTRO LA MADRE, L’arcolaio 2010

Stefano-Guglielmin88E’ Stefano stesso a suggerire, alla fine del libro, una lettura a rebour di questo percorso di pensiero: “ora, torna indietro, e rileggi”, p. 53.

L’invito a una ri/flessione, non si riferisce, tuttavia, allo scioglimento di un indovinello, ma proprio al tornare all’origine, a un punto di biforcazione, a partire dal quale non è più possibile imbastire una mitologia delle origini e un suo pensiero corrispondente, ma la Storia.

A differenza dell’io descritto in Come a beato confine, soggetto di un vivere per approssimazione, per giustapposizioni millimetriche verso il punto successivo di senso, qui io, apparentemente mimetizzato perché annebbiato da “quel proprio suo gettato di fuori”, in realtà già gode ed è regolato dall’ ”insieme dei motivi stretti in vita, sui quali regola il canto”, p. 29. Esso semina, dunque, molte briciole di un percorso a ritroso di svelamento verso un punto d’origine riconoscibile. Non si tratta di individuare, genericamente, le partizioni dell’essere che vive e si duplica, e gode del suo avere forma, del suo dichiararsi; perché, se ogni nascita segna la rottura delle acque, subito dopo, però, per necessità, ogni storia deve saper ridisegnare il suo inizio.

Questi motivi sono, invece, le pratiche, tutte occidentali, di una malattia, al limite di un movimento, di una polluzione verso un senso che non muta più, troppo radicato per snodarsi in altro – abortita, culturalmente, la speranza di una rinascenza senza l’idea di peccato, di purezza intoccata delle origini.

E infatti leggiamo: “il corpo grava infatti, fa ombra agli zecchini”, p.18; “quando serve, dà alla fabbrica sfogo: di notte/cola sifoni e fa mestruo di fondi. Di giorno, spurga lavoro”, p. 21; “cura col maglio il rischio d’impresa e con metafore vive”, p. 24; “anche suo figlio impara/(…) pare che preghi/ed invece contratta, come suo padre”, p. 25;”seduto sul suv squadra la sera, là dove la fabbrica chiude”, p. 36; “intanto ama i nomi/che danno la pancia piena, li mette a dimora, come grani:/numera gli a capo, fa le pulci ai beni”, p. 40; “lui preferisce/il negozio: dare e avere, comprare”, p. 41; “volta gli utili con cura, li consuma”, p. 43; ”studia inglese, intanto, compra”, p. 44; “il perno che lo lega alla pancia del denaro”, p. 48; “figli suoi e dei cosi/che lui chiama gente,/tutta roba che parte per discariche e tombini”, p. 51; “lo chiama spirito d’impresa/legno duro che squaglia i teneri di cuore”, p. 52.

Queste azioni/pensieri, non possono che appartenere a un io invischiato e stratificato, preso dall’ubbidienza a una discendenza; alla quale se ne contrappone un’altra, che possiede altari in contrappeso, di uno sguardo che non si sa girare ma che vorrebbe, dovrebbe, “se ogni tanto/si girasse come l’angelo di klee. Se inorridisse”, p. 48; “sa che solo dormendo/può seguirne le tracce, capire quale piede manchi”, p. 44.

Tutto questo avviene nel baratro dove “il crepo è totale (…) smangia i bordi anche al nido”, p.41.

Dove la morte, il rischio o l’effetto del tornare all’inizio, del togliere l’incomodo ed evaporare il dolore, è esattamente la forza che, smangiando, mette in luce, sottraendolo al nascondimento, all’ombra, colui che agisce per tradizione ricevuta. Ed è proprio lui che preferisce il negozio: dare e avere, comprare. Dentro e fuori i domini della polis, “la morte è una bocca/impagabile (…)quando la tocca, tutta la madre trema”, p. 42.

Insomma, questa bufera scatenata nel corpo della madre sarebbe provocata per opposizione e non curanza al/del corpo malato del mondo, tutto vivente solo nello spirito d’impresa/legno duro che squaglia teneri di cuore. E perfino nella nicchia di quello spazio preculturale preservato da ogni imposizione a regolamenti condivisi, che è il letto: dove eros si esercita alla morte perché da morte scelta fu tratto il primo figlio:

ama come il perno la ruota o lo stantuffo il freno:

è una questione di fede nei fluidi, di meccanica cruda.

quando gode, sfiata invero pressione, ritrova

lo stato di quiete. Poi fuma e ride, versando grappa nel buio.

E un buon uomo quando posa il bicchiere.

p. 20

Testo apparentemente semplice, da leggere, invero, nell’ambiguità tutta esercitata nel rapporto tra funzione sociale dell’atto riproduttivo – anche in senso economico, di forza lavoro, nello stato di “cattiveria”, di non naturalità, se quest’uomo è buono solo quando posa il bicchiere¸– e di esercizio del puro sfogo, del puro atto fuori dalle regole, nel regno altro di eros, tra esaltazione della forza e ritrovamento dello stato di quiete.

Ma ancora non capiremmo bene se non leggessimo che “c’è bufera sin dentro la madre”: il che vuol dire che il sommovimento non riguarda solo il corpo dell’origine ma anche lo spazio sociale che lo ha rivestito, negli anni, di altri mali.

Dunque, chi è questo che, malgrado tutto “sin da bamboccio, comunque/versa l’acqua sul capo, la domenica, va lindo incontro/al suo uovo. Poi di sera lo sveste, ne tasta la buccia/col dito”?, p. 27.

E’ il fratello, per discendenza, del fratello che ha ucciso, portatore del’economia delle città, del suo pensiero e di tutti i suoi drammi. E’ colui che è “nato da parto gemellare, fonda regole e città, marca rioni./vorrebbe giardini, intorno, ma fa crateri, e quando apre, strappa/(…)prima di dormire, prega abele/di non lasciarlo solo.”,p.47.

Caino prega Abele di non lasciarlo solo. Quasi che, per la fondazione della città, basata sulle regole economiche del dare e avere, peso e misura, vendita e guadagno, occorra il controaltare di una innocenza franta nel sangue, da venerare, a rito perpetuo, tutte le volte che quell’uovo di noi che custodiamo nel seno ci ricordasse della possibilità di una rinascenza, di un fondo intatto di azzurro. In fondo, ancora oggi, sacrifichiamo alla nostra coscienza, tutte le volte che ci ricordiamo di aver perduto la strada del ritorno, l’innocenza.

Sebastiano Aglieco

7 commenti

  1. Caro Sebastiano, sempre più spesso ci abitui alle analisi certosine. Qui, credo tu abbia superato te stesso. Mi complimento assai!
    Con affetto e stima,
    Gianfranco

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  2. Beh, o si approfondisce o si fa una nota, no? Guarda che ne seguiranno altre! Un abbraccio. Sebastiano

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  3. leggo solo ora, e mi scuso. Caro Sebastiano, il Caino di cui parliamo tende sempre più ad ingabbiarci nei suoi modelli. Fatichiamo molto a resistergli e non sempre ci riusciamo. Se in “come a beato confine” l’io era metafora del centro malato, “C’è bufera dentro la madre” è andato a sviscerarne le interiora, a vedere che cosa si agita in quel nucleo, mutando la metafora in un corpo vivo, quello dell’imprenditore del nord-est, che invero non è un mostro, ma nostro fratello di pena, entrambi prede di un presente che uccide il futuro ai nostri figli, ammorbando l’ambiente e negando loro la possibilità di progettarsi.

    ti ringrazio molto per questo attraversamento, di un libro difficile e, apparentemente, senza speranza.

    un abbraccio!

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  4. i LIBRI FACILI, CARO sTEFANO, MUOIONO IL GIORNO PRIMA DELLA LORO MORTE. LA TUA “BUFERA” RESISTERA’ ALLE ALTRE INTEMPERIE DEL TEMPO. GRAZIE, SEBASTIANO. TI SONO MOLTO RICONOSCENTE. TUO AFFEZIONATO GIANFRANCO

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  5. Ecco, con Stefano avevo già parlato di questo libro esprimendogli la mia sorpresa e la mia ammirazione, e dicendogli che mai ne avrei scritto una recensione perchè non mi sentivo in grado.
    Invece tu, Sebastiano, lo sei. Grazie a entrambi.

    Francesco t.

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  6. Caro Francesco, mi sembra di poter dire che la lettura costante affina lo sguardo. E nel caso del libro di Stefano, bisogna avere lo sguardo molto fine! Un saluto a tutti.
    Sebastiano

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