Maurizio Casagrande: Belès, 99 Cante tigrigne

Maurizio Casagrande, Belès, 99 Cante tigrigne, Ronzani 2024

La poesia è un insieme di parole così semplici che descrivono i sentimenti o il punto di vista del poeta, o i sogni che ha, i suoi desideri e le sue paure, ma anche se lui parla di se stesso e sta raccontando la sua storia, in qualche modo mi fa sentire che sta parlando di me e della mia storia in questo mondo

Sì, Maidàn, hai davvero ragione e nessuno poteva dirlo meglio di così

(Una presa sicura, p. 204)

*

Belès vuol dire fichidindia. La copertina è una traccia in grafite scura, come un rivolo, nello sfondo di una fitta rete tracciata a carboncino, (si tratta di un’incisione di Rachele Zerbetto). Se la copertina di un libro, e il titolo, hanno la responsabilità di indicare un clima, una specie di incipit testamentario, si comprende bene come la materia di questi 99 Cante tigrigne sia spigolosa e dolorosa, irta di spine urticanti e paesaggi aspri.

Per chi abbia letto le prove precedenti di Maurizio Casagrande, e in particolare Dàssea nare, il requiem dedicato alla scomparsa della madre, risulta chiaro come egli proceda per grandi blocchi compositivi, tematici, incastonati dentro una rete esperienziale in cui il dato astratto è bandito.

Si tratta, nel caso di Belès, di un diario in versi, che scandisce i movimenti interiori, quasi sempre dolcissimi o durissimi, mai tiepidi, provocati dall’incedere degli eventi, grandi o piccoli non importa. Movimenti minimi, che tuttavia sembrano cataclismi, capaci di solleticare la funzione della poesia: dire nel modo più diretto possibile, buttando all’aria le maschere che imbellettano la forma.

Dunque: due anni trascorsi presso la scuola italiana di Asmàra, in Eritrea, poi improvvisamente chiusa a causa della pandemia, con trasferimento d’ufficio dei suoi insegnanti presso altre sedi. Casagrande si ritrova catapultato in una condizione esistenziale ricchissima di esperienze forti, di considerazioni amare sullo stato degli esseri viventi, costretti a vivere situazioni di grande precarietà. Il tutto filtrato dal suo ruolo di insegnante e dall’impatto diretto con gli alunni:

“qui ormai sono temprato a tutto al ragazzo

che se ne esce in un rutto quell’altro che si

rimpinza di cibo un terzo che si piscia nei

calzoni addirittura un’intera classe viene so-

spesa perché finita l’ora avevano spalmato

un banco di merda ed io dovrei tenerli?”

(Sei anche padrone di inveire ma comunque, p. 44).

Impossibile leggere questo libro senza farsi solleticare dalla memoria letteraria dei personaggi che l’Eritrea l’hanno quantomeno attraversata, probabilmente in condizioni non tanto diverse da quelle descritte da Casagrande. Rimbaud è citato in un paio di passaggi, ma non in senso cronachistico, quanto, piuttosto, nei termini di un sotterraneo confronto umano ed esistenziale.

“indurisci il cuore scordati buone maniere ed

ardori e affila la lama fatti crescere per bene il

pelo sullo stomaco tieni a mente quell’altro

ramingo votato alla poesia giunto qui via

mare in sfregio alla madre e tu non sei mi-

gliore oggi non è peggio di ieri considera nei

tuoi pensieri che la vita prima ti dà e poi ti

toglie a noi spetta adeguarci alle sue voglie

(Cresci alfine! , p. 86).

Si tratta di un passaggio importante perché mi permette di sottolineare alcuni risvolti di questa poesia; in primo luogo il ruolo che una terra può assumere come musa, (spleen, duende, genius loci, diabolus, senhal). Si è colpiti, leggendo il materiale prodotto dal Rimbaud africano, dal tono estremamente pragmatico dei suoi scritti. Nessuna poesia; anzi, pura rimozione. Condizione poetica, diversamente, per Casagrande: “Amir diviene Rima, e dovevo solo accorgermene prima…”, (Nuova casa, p. 154).

Poesia vivissima, per conseguenza, e tuttavia accomunata all’esperienza del grande francese da un desiderio di ritornare: “Spero proprio di non dover sprecare ancora molto della mia esistenza in questo sporco posto”, (Rimbaud, Lettera ai propri cari, Aden, 14 aprile 1885).

“Lasciatemi in pace non ho cuore di rivoltare

pure il fieno appena finito il primo taglio mi

mancano le forze anche di elaborare il lutto

sulla mia scelta avventata”

(Belès, Dagli abissi, pag. 88).

Rimorso della partenza:

“Cara Sorella papà se mai vi ho abbando-

nato è stato per stringere il legame perché

rifulgesse la piccola luce che avevo acceso

quando eravamo sopraffatti da un mare di angustie

(Belès, Ai mei cari, p. 76).

Ugualmente, una sorta di non dichiarato affetto da parte di Rimbaud nel mantenimento dei legami coi famigliari, e non per motivi esclusivamente utilitaristici.

E ancora: la descrizione dei malanni, fisici e morali; di una condizione di deterioramento dell’essere; “Soffro di febbre gastrica, non posso digerire niente, il mio stomaco è diventato molto debole e sto proprio come un disgraziato per tutta l’estate”, (Rimbaud, Lettera ai propri cari, Aden, 14 aprile 1885);

“e proprio in quel momento un nodo mi strin-

ge ché niente più mi ritrovo intorno niente

comprendo neppure il fiato per imprecare

ridotto a pura solitudine”

(Belès, Notte senza consiglio, p. 28).

Il paesaggio estremo in Rimbaud è trattato col graffio precisissimo e distaccato di una punta a secco, in Casagrande sotto l’effetto di compassione e di afflato nostalgico. Si leggano, fra le tante, le bellissime descrizioni di Asmara; di notte, sotto la coltre di un cielo pieno di stelle; di giorno, ammantata di un azzurro che acceca:

“Asmara di giorno è un calice d’azzurro dolce

da bere con gli occhi quanto uno spicchio di

mango e papaya di cui non saresti mai sazio

che ancora vorresti assaggiare

di notte il suo cielo diffonde altre essenze

ha un profumo pungente e un lenzuolo di

perle in ogni istante ad avvolgerla integral-

mente in un profluvio di luce dai più pro-

fondi abissi siderali”

(Notte e giorno, p. 90).

Consonanze e divergenze, dunque, psicologiche e letterarie, autorizzano alcune considerazioni in merito alla poetica di questo autore, la cui poesia è cresciuta negli anni attestandosi sul filo di un’originalità riconoscibilissima e ormai autorevole.

Si tratta di una poetica ascrivibile ai valori etici della poesia dialettale e alla verità della parola, strumenti atti a percepire l’oggettività del reale, in una sorta di correlativo ametaforico e asimbolico.

Il dialetto “ruspante” e “vile”, definizioni dello stesso Casagrande, lingua imparentata con un microterritorio assai delimitato, trova in questo libro una giustificazione nella consonanza con la lingua “altra”, incomprensibile, espressione di un importante estraniamento esistenziale e, di conseguenza, di una rivitalizzazione della propria lingua “infante”.

E’ un fenomeno che, mi sembra, derivi dal rapporto difficile con l’entourage antropologico – e la lingua ne è una delle sue maggiori espressioni – in cui l’uomo occidentale finisce per rivangare il sostrato delle proprie origini, riflettendo sui fenomeni, non sempre positivi, del cambiamento.

Si leggano i numerosi riferimenti alla guerra del Rimbaud africano, e, in consonanza, le riflessioni di Casagrande, centotrent’anni dopo:

“io poi adesso sono assalito dall’angoscia

quando vedo ad ogni incrocio un sacco di

giovani sui venti trent’anni che si reggono

sulle stampelle quando non si tratti di carroz-

zine a tre ruote da spingere con la manovella

i più fortunati con un motorino a scoppio

come succedeva anche da noi appena finita

la Grande Guerra di corsa nel dodici dalla Li-

bia fino alle Tofane un secolo prima che toc-

casse anche a me inciampare sull’Africa per

rimetterci le gambe ancora sane”

(Lettera al nonno dal Corno, p.56).

Rimbaud scrive in funzione di cronaca oggettiva. Casagrande con indignazione e angoscia. Ambedue indicano una situazione esistenziale permanente. Rimbaud, in qualche passaggio delle sue lettere, depreca i comportamenti dei “negri”, non tanto dissimili da quelli dell’uomo bianco; Casagrande annota i disastri del potere e l’incapacità di reagire della gente.

La lingua, dunque, finisce per fustigare ogni retorica, ritorna a una sorta di comunicazione delle origini, all’esigenza di una robusta necessità morale. Se la rinuncia di Rimbaud alla poesia voleva dire, ed è una mia ipotesi, rinunciare alla retorica della lingua, quindi a tutta l’antropologia dell’Occidente, in Casagrande la “terra difficile” realizza, al contrario, il tentativo di rivitalizzare la lingua dell’Occidente ripartendo dalle origini: il dialetto, lingua dei contadini, così come il tigrino è lingua di un popolo imprigionato dalla durezza e dalla distanza del deserto:

“E’ un intruglio di vetri e di croste questa sfer-

za che ogni volta ti frusta ha qualcosa di sel-

vaggio questa lingua tigrina tutta gutturali e

aspirate masticate sottovoce per metterti in

croce che la usino uomini o donne

(Lingua ostile, p. 132).

La lingua ribattezzata, non può che essere lingua ai confini del balbettamento, della prima scoperta, scritta di corsa per strada, sentita come bozza da ancorare al tempo, in una situazione in cui il deserto suggerisce il silenzio, l’attesa senza tempo di una parola ancora a venire:

“Quasi non la sento mia questa manciata di

versi che vengo seminando per l’Africa e non

dispongo neppure del tempo necessario ad affinarli

(…)

è tempo di silenzi e di parole contate di fiori

che sbocciano anche in pieno deserto non ap-

pena due gocce di pioggia l’abbiano coperto”

(Quasi non la sento mia, p. 148).

Oppure, nel caso di Rimbaud, la poesia rinuncia a se stessa e si fa mera cronaca dei fatti, assenza di afflato.

Il deserto si configura come possibilità di una rinascita, luogo da esplorare nel buio nella propria insicurezza e nella scommessa di una produttiva ignoranza:

“Una lanterna che illumina e risplende fino a

vincere ogni timore del buio

una lanterna da cui riluce una brace che mai

non si spegne e nemmeno si offusca quanto

gli occhi azzurri di Tosca

una lanterna che stringo tra le mano benché

priva di pregio

una lanterna che io solo possiedo per usarla

con sapienza in sfregio alle mie paure scevra

di artificio utilizzando parole buttate lì senza

alcun valore e di cui nessuno dispone”

(Lanterna magica, p. 216).

Storicamente la riflessione antropologica sullo stato dell’essere si è sempre realizzata, prima dell’avvento dei grandi movimenti, in uno stato di distanza e di isolamento. Ed è proprio nel deserto, lontano dalle considerazioni utilitaristiche di un Rimbaud interessato al guadagno e alla posizione, che Casagrande sente prepotente la voce della poesia.

Da una parte, quindi, l’oggettività della riflessione, la legge morale inculcata nell’essere per predisposizione genetica; dall’altra l’intrusione dolce e malinconica del fiato, autorizzano che questa musa abbia la forma volatile di un Senhal:

“Come Fòlgore in quei sonetti intrisi di ma-

linconia per madonna cortesia cui aspirava

nel suo cuore”

(A un amico lontano, p. 30)

“Ma tu fanciullo come facevi a tenerti lontano

dalle gonne delle donne eleggendo a dimora

nelle zone più desolate fra bianche strade

baracche e lamiere?”

(Monologo interiore, p. 120).

Ma anche, insistentemente, in altri passaggi:

“e ho pensato a te al comune destino

di aprirci a vicenda le segrete del cuore per

quell’amore da lontano dei trovatori di cui

siamo fratelli minori”

(Epistola all’amico del ‘Norico’, p. 244)

“Miei cari Arnaut e Bernart trovatori anche

lo sciocco lo sa che poetare è un servizio

per cuori eletti”

(All’anima grande di Ida ‘Imitazione’, p. 246).

Anna Maria Farabbi in una recensione apparsa su “CartaVetro”, sottolinea di questo libro il suo andamento monologante, quasi teatrale, al centro dell’abisso. In questo senso Belès mi sembra possa essere accostato all’esperienza di solitudine di un personaggio come Giobbe, ma senza il dispositivo dialogante ed enfatizzante degli amici/giudici interlocutori. Piuttosto:

“Porto lo stigma del battesimo il marchio di

Caino sulla pelle per lo scempio consumato

su Abele cicatrici della guerra gotica unghie

sporche di terriccio un piede irrigidito poca

forza sulle mani questo il mio oggi anche

peggio il mio domani”

(Porto lo stigma del battesimo”, p. 94).

La situazione denunciata in questo testo, è quella dell’uomo occidentale imprigionato nella sua condizione di battezzato, il quale, solo in questo modo può affrontare lo scandalo del peccato e le ingiustizie della Storia. E si avverta, ancora una volta, la dicotomia creativa rispetto alla poetica della rinuncia al battesimo, della condizione di negro espressa da Rimbaud, mentre, per Casagrande, il distacco è solo una preghiera e un progetto:

“Donami la forza di indurire il cuo-

re senza cullare rimpianti senza lacrime che

non nascano al cospetto del vuoto che mi

lascio alle spalle”

(Gran costellazione dell’Orsa, p. 206).

Forse in questo senso è possibile comprendere come in Rimbaud lo scandalo del dolore e dell’ingiustizia sociale siano conseguenza di un cristianesimo che bisogna abortire a tutti i costi, facendosi, appunto, “negro”. Se Rimbaud elabora la condizione del suo lutto “occidentale” inventando la fredda prosa delle lettere e delle cronache geografiche, in Casagrande è negata la rinuncia alla poesia:

“Si può vivere anche senza abbuffarsi senza

assaggiare nemmeno una stilla di vino o di

birra ma ciò che mai potrai fare è rinunciare

al canto che si va spegnendo della tua poesia”

(Si può vivere, p. 72).

Vale a dire: nei contesti di massima deprivazione, la poesia diventa arma e resistenza. Il divario tra poesia e entourage antropologico si fa inesistente; lascio, dunque, a chi legge, le considerazione sullo stato attuale della poesia in occidente.

Belès è dunque un libro in grado di riattivare, ma senza dichiararlo apertamente, un discorso sulla retorica, sulle forme. E’ un libro di ritratti: persone, luoghi, gesti, oggetti, situazioni, assimilabili al genere de La condition humaine, e quindi al modo del grande realismo che, a partire dalla Francia, ha attraversato tutto l’occidente. Nessuna similitudine, metafora, simbologia, ma una lingua tagliata col coltello, come i padri tagliavano col coltello il pane. Riattiva e riutilizza in maniera personale, non per esigenze retoriche ma per condizione naturale, alcuni topoi della poesia occidentale: per esempio la luna, l’angelo, le costellazioni, calandoli nel contesto dantesco di una città dal volto dolce e terribile, disumana e piena di umanità: l’inferno dantesco consolato dal cielo delle sfere, e in cui gli animali sgozzati o in stato di bisogno costituiscono lo sfondo di un paesaggio millenario sempre uguale a se stesso. Sono immagini che stemperano la tragedia del vivere, abbozzate in semplicità, ma in modo che possa risultare veritiera l’indicazione di poetica di Maidàn:

“Ogni sera risplende e perdura sino al matti-

no ma brilla anche se il sole ti acceca questa

sgualdrina di luna

stamane la fissavo in pieno giorno sembra-

va volesse dire qualcosa solo a me ma non

trovava le parole”

(Ogni sera risplende, p. 96).

“Una grazia nel fare che ti lascia a bocca aper-

ta una scioltezza di eloquio che non conosce

malizia un visetto innocente che pare uscito

da un tondo di Giotti così riccioluto di capel-

li quanto gli angeli più belli raffigurati sulle

tele di Caravaggio

occorreva un pizzico di follia nel giungere

fino al corno col restare ammirati al cospetto

di questa bocca della verità

ma tu piccoletto fa tesoro delle tue qualità

difenditi con le unghie resta puro di cuore

anche quando assaggerai le stilettate di un

amore o i sibili della frusta maneggiata dal

dolore

(Belès, Al piccolo Sami, p. 178)

Annota Isacco Turina nella postfazione, a proposito della spigolosa questione della traduzione: “Compare qui il nodo, fondamentale quanto irrisolto, della traduzione. Quelle fornite dall’autore sono reticenti. Casagrande opta regolarmente – e ingiustamente, a parere di chi scrive – per una lectio facilis, che ricopre sotto una vernice troppo liscia la grana scabrosa dell’originale. (…) Il difetto è sistematico e come una severa transenna impedisce a gran parte del pubblico l’accesso allo spettacolo della poesia. (…) E’ in effetti probabile che egli nutra una pessimistica sfiducia nell’italiano, forse alimentata dall’attaccamento esclusivo al dialetto. (…) Eppure, a nostro parere, il disagio qui non è soltanto personale. Il mancato dialogo tra lingue locali e italiano impoverisce la nostra letteratura…”

E’ un giudizio severo, rispetto al quale ho una personalissima opinione. Frequentando da qualche tempo autori siciliani che hanno scritto in dialetto, ho potuto constatare come, nel corso degli anni, la pratica della traduzione, e non solo per i siciliani, si sia evoluta in forme diverse.

Un grande autore come Alessio Di Giovanni, e non solo lui, non traduceva in italiano; le traduzioni sono state condotte da altri poeti, in versioni che si accontentavano di un servizio.

Altre volte, verso anni a noi più vicini, si leggevano versioni d’autore con parecchie licenze poetiche, alla stregua, s’intende, delle traduzioni da altre lingue, si pensi a Montale e alle sue belle infedeli.

Un altro modo di tradurre era quello di non tradurre, corredando i testi originali di uno scarno vocabolario, a chiarificazione dei termini più ostici.

Poi è prevalsa la traduzione in fondo pagina, a carattere ridotto, con i versi separati da barrette; traduzioni curate, queste, ma quasi sempre di servizio. Ultimamente, mi sembra, prevalga l’idea di una traduzione a dittico: testo originale corrispondente al testo in italiano in una specie di specchio in cui la traduzione cerca di non sfigurare affatto con l’originale, ponendosi, nei casi più estremi, come testo a sua volta, originale. Alcuni fra gli esperimenti più suggestivi riguardano traduzioni a cura di poeti spesso importanti, in una lingua dialettale, di opere scritte in italiano. Si vedano due recenti operazioni curate da Marco Bellini: Muri a secco, Rplibri 2019; Intrecci, puntoacapo 2023. Ma si veda anche la plaquette Talithà Kumi, due testi in dialetto di Maurizio Casagrande tradotti in tigrino da Michele Fassina, con disegni di Viviana Zorzato.

Ciascuna di queste modalità andrebbe approfondita in rapporto a come si è evoluto nel tempo il pensiero sulla questione del dialetto e sulla sua fruizione, argomento che certamente investe motivazioni non solo di ordine letterario.

A me sembra che Casagrande opti per una soluzione ancora diversa: una traduzione letterale, che esalta il senso del testo, ma con la novità di una forma in prosa che, in quanto prosa, non deve e neanche può porsi il problema della corrispondenza. Ne risulta un testo che evoca la forma del diario in versi sciolti, informato, a mio avviso, dall’urgenza di demandare all’italiano la restituzione di un senso forte, un modo, diversamente da quanto sostiene Turina, di incoraggiare il dialogo con una terra di confine, dove il dolore è ancora faccenda da non sottovalutare. Prevalgono, insomma, due compiti: la massima poesia nella lingua dialettale, la massima comunicazione nella traduzione in italiano.

In una conversazione privata, Casagrande mi confessava la tentazione di pubblicare poesie senza traduzione. Qui ha ragione Turina, quando afferma la sfiducia del poeta nell’italiano. Ma la lingua di Maurizio non è certamente lingua informata solo da ragioni squisitamente letterarie! Si fa lingua, ci dice questo libro, e non letteratura. Perché la letteratura s’ingrossa della nostra incapacità a fare lingua; si fa bella, senza riuscire ad essere vera.

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