ULTIMI LIBRI: DANIELA PERICONE

Daniela Pericone, LA DIMORA INSONNE, MorettieVitale 2020

”Quando entriamo in una casa in cui non siamo mai stati prima, proviamo subito una sensazione piuttosto vaga. (…) Così succede con la poesia di Daniela Pericone, quando la visitiamo. (…) La poesia di Daniela Pericone è frutto di una scelta di riservatezza. Non c’è sfolgorio, non ci sono urla nei versi: tutto è al suo posto ma si lascia solo intravedere, come se fosse immerso in una bisbigliante penombra. A volerla classificare, questa poesia potrebbe essere definita astratta. Ma si deve sgombrare il campo da possibili equivoci in proposito. L’astrazione qui non è mancanza di realtà, ma rielaborazione, o addirittura redenzione della realtà stessa, se consideriamo che il linguaggio poetico può diventare uno strumento di salvezza, o almeno di sopravvivenza. (Alessandro Quattrone nella postfazione)

E così l’autrice, in una premessa:

La lingua è uno sciame di voci venute dall’infanzia e parole accumulate nelle letture solitarie. Eppure non basta il ricordo, né la folla dei libri, quel che conta è l’inclinazione dei sensi, il daimon di ognuno.

Tra i suoni avuti in sorte il poeta soppesa, scarta, innesta, disdegna o accoglie, corrompe o acclama. Così edifica la sua dimora, dà forma al suo proprio idioma, inconfondibile nel timbro, nei colori, il calco esatto del suo ardore.

La poesia, dunque, è casa,è questa “dimora insonne”.

Leggiamo allora:

Lentamente

orientava le stanze

a un altissimo sole

dimenticato, diverbio

d’ombre il mattino.

Si china al passaggio.

Ventura di stagioni

dileguare la polvere,

le abitudini – si ritrae il ramo

alla foglia, ai suoi ritorni.

Il guscio tra i nidi affretta

la schiusa, ripete il volo.

p. 11

*

Mio corpo

immerso nei segni

di mutamento, vòlto

che strema la sua cera,

spargi la quiete

che fu ardore, asseconda

lo slancio e la caduta,

la mira è caparbia

tra una linea e un sussulto

a distrarre le correnti

e i precipizi acerbi

– pretesto di chi s’incorda

alla fatuità della lotta e finge

l’audacia di tirare la cosa

al tempo.

p. 17

Dal passaggio dei primi versi, si potrebbe dedurre, non so se con un salto mortale o una capriola di pensiero, che questa poesia/casa è, essenzialmente, il corpo.

Evidente quanto dice Quattrone: “poesia astratta”; nel senso dell’idea di una casa ordinatissima, dove ogni oggetto/parola è al suo posto e mostra un suo nitore; persino l’idea di un vuoto, di un’assenza. Si tratta, tuttavia, di poesia occidentale, dove le parole “vuoto” e “assenza” possono caricarsi di nefasti drammi esistenziali e non di essenziali dimostrazioni dell’inconsistenza del tutto.

Qui ci sono “segni di mutamento”, “volto che strema la sua cera”, “ardore…slancio…caduta…caparbietà…precipizi…fatuità della lotta…tempo…”

Si tratta, insomma, di una casa che si regge su fondamenta superficialissime, che vibra a ogni scossa di terremoto psichico. Il proposito sembra essere, fin dai primi testi, il tentativo di esularsi dal tempo, dal desiderio, dal mutare, dall’inganno delle stagioni.

Molti testi sono costruiti intorno a un imperativo che si propone di portare la parola avanti, strappandola al suo dramma di sentinella, di custode della casa:

Dai rifugi / del sonno ora distrai / l’andatura (pag. 18); “Rinunci a dire / del tempo, smalto / sottile ai giorni e pochi / inganni – l’inverno / è indecidibile”, p. 19; “Sorvegliare il buio / è non temerlo”, p. 20.

Dentro i contorni di questa casa, dietro la sua apparente quiete, si apparecchia la lotta sottile ed estenuante tra il dentro e il fuori, tra i confini della propria sopravvivenza e l’intrusione delle forze:

Scivolavi tra le dita

senza un appiglio, tacendo

disfatte – si confonde

l’incendio con la polvere.

Non resta che asciugare

il fiato, ancora scendere

fino al dolore – tuttavia

sostare leggeri, risolvere

enigmi da nulla, cambiare città

per continuare a star soli,

concentrarsi tanto da sentire

l’esplosione sul pianeta accanto

– una luce obliqua, un basso

continuo, il tuono non vede

la sua fine.

p. 21

La casa, dunque, ogni casa che si rispetti, conserva segretamente una porta che conduce alle cantine. E’ il luogo dal quale si alza la notte e le presenze che smuovono delicatamente gli oggetti, minacciando di farli cadere. Il compito di chi abita la casa è la resistenza. E la casa è la casa, anche se si cambi città, persino pianeta. E’, cioè, il luogo raccolto dell’accadere interiore, la sintesi tra ciò che il mondo apparecchia davanti al nostro corpo e l’interno che si protegge, che si autorigenera.

Mi accerto che l’ombra

non si allontani troppo

da me, la cerco a tentoni

sul muro, non chiedo

da che provenga, se un nome

o un sortilegio – vacilla il passo

elude il richiamo, indeciso

si sdoppia tra le due sponde.

p. 22

A volte il poeta sbircia dalle finestre, guarda fuori, il mondo: “La città in controluce / è un dio che confonde / i nomi alle strade, i desideri. / Le dita stringono l’aria, / non perde chi non s’attende / altrove”, pag. 23.

La città è un’estensione della casa; e se il corpo è la casa, ecco il senso dell’abitare il mondo, dell’essere di tutti, in ogni angolo del mondo.

La casa è assalita: “piogge incessanti scrostano / i muri, alle case resterà il sale”, p. 31; la casa, cioè, ha una sua archeologia di strati, di sostrati.

La casa è una partenza, non è per sempre: “Non oltre indugiare / al commiato, radunare / pochi resti, rasura di carte, / sembianti – ritrarsi alle rive”, pag. 33.

E poi questi versi finali che mi interessano particolarmente:

Disporre dell’orma

che non trattiene e fuga

l’agguato dell’ombra,

negare l’istinto

di orfeo.

Intendo: Euridice segue Orfeo, Orfeo non può girarsi, guardarla. Chi lo segue dispone dell’orma, la quale non ha potere di trattenere, può compiere passi in avanti o al contrario, semplicemente.

L’orma contro l’ombra, reale e irreale; l’irreale ombra è agguato, pericoloso agguato.

Qual è l’istinto di Orfeo che bisogna negare? E’ il suo amore potente; il suo egoico amore; la sua vanità a pensare di poter salvare. Ecco allora perché questa Euridice non indugia al commiato. Sua è l’orma che non trattiene, che rivendica il potere/desiderio di liberarsi, di andarsene.

La mia casa non respira

bisognosa com’è di solitudine,

in un tempo che è un seguito

senza fioritura solo indizi

di naufragio – ora si rincorrono

visioni, nulla era deciso eppure

preciso l’ordito, l’epilogo.

Andrò con queste acque

sotto le palpebre.

p. 35

Vorrei segnalare ancora come il tema del corpo venga declinato anche nel senso di un corpo/altro da sé: negazione della propria zona nefasta: “è tempo di uccidere / medea”, p. 34; corpo profondo, innominabile: “Il corpo è ancestrale / aduna risorse l’istinto / tenace”, p. 42; corpo rigenerato: “Era nato, aveva dita / minuscole e occhi sgranati / sporgeva dal bordo / del cuscino – l’espressione buffa / da adulto che la sa lunga – “, pag. 43; corpo da salvare: “Schiudo la mano / che ripara, provo a salvare / un nome che dica durata”, pag. 47.

Nella sezione eponima, la penultima del libro, leggiamo di un tono, più sommesso, di preghiera, di propositi buoni. La casa, ora, mi sembra, fatta di pareti sottili, o trasparenti, attraverso le quali il mondo appare nelle sue forme senza, tuttavia, poter fare del male. La scrittura, essa stessa, con il suo andamento da diario poetico, si fa luogo che custodisce, preserva qualcosa:

Lambisce gli ori

la lingua salvata, i neri tasti

dell’alba coincidono in musica

e astri – è lì che dimora certezza

di sciogliere in suono

qualunque dolore.

In quel che è distante, perduto

cercare un giaciglio alle notti

è perfezione del buio.

p. 55

*

Non smettere, dici,

non farmi mancare notizie.

Le parole, il pensarsi

sono un balsamo. Le strade

si confondono tra gli alberi, docilmente

l’uno all’altro svanisce il dolore.

Aspetta, dici, fino all’ultimo istante

– fuori piove, le tempie dimenticano

i battiti, lentamente la pioggia insegna

alle dita il silenzio. La notte

scivola, chiara.

p. 59

Ecco allora parole quali “ invocazione, apparizione, nome, soffio, emergere; ‘ombra su ombra’, ‘gli insorti, i perduti’; ‘qualcosa / è mutato al paesaggio, un suono / o un soffio muove a convocare / i ricordi’; pag. 63.

Il sonno rovista le stanze

dove i sogni fingono

predizioni – sfiori le porte

invase dai venti, fantasmi

traversano muri che hanno

smesso di esistere.

Anche il cielo prepara

apocalissi, un fitto di ghiaccio

e nebbia ingoia il selciato.

Senti avanzare le piccole

venature, pronte all’annuncio

di eventi, l’incastro dei vivi

dei sommersi – una goccia

esita in punta di foglia

sarebbe magnifico precipitare

in alto.

pag. 69

Daniela Pericone, insomma, prepara l’ultima sezione del libro in cui convoca “i silenziosi, i solitari”.

I silenziosi, i solitarie

sostano agli angoli

coperti di lune

traversano i fuochi

e l’offesa, tralasciano

le mani voraci

– si spostano i deserti,

è terra temeraria

la pazienza.

p. 75

Con una bellissima preghiera:

Solo concedi

agli ignari, ai mondani

il similoro – preserva

dei pochi la fiamma

gentile, il desiderio

non esibire.

p. 79

“Una poesia fitta di corrispondenze e di trame epifaniche, e che pure affonda nella concretezza dello sguardo e del sentire, ricca com’è di vita quotidiana, di piccoli eventi naturali e umani, che devono però essere interpretati, ricondotti a un loro segreto originario, svelare un destino”. (Giancarlo Pontiggia nella prefazione)

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