Alessandro Corradino, che non è un critico di professione ma un lettore attento e partecipe, scrive di LUCE DELLA NECESSITA’. Lo fa come non sempre fanno i critici di professione, e cioè leggendo per immersione, contando le ricorrenze e immaginando persino qualche strada di lettura, utile non solo a chi legge ma anche a chi ha scritto il libro. Per esempio quando afferma, a buon ragione, che si tratta di un libro fenomenologico. Lo ringrazio per la cura e anche per la perseveranza.
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L`ultima raccolta poetica di Sebastianno Aglieco è Luce della Necessità, uscita l`anno scorso per Mimesis Habenon.
Nella totale assenza della dimensione fantastica, qui le cose sono le cose e il poeta se ne fa semplice testimone. Quest`opera è, soprattutto, sguardo sull`accadere, poesia dello sguardo che non si riduce a pura poesia dell`io. E’ il poeta stesso a delegittimare l’io, o, comunque, a porgli un limite: “e la penna è chiusa alle immagini del mondo / e io non sono più”.
Limite e misura sono da considerarsi elementi fondamentali di tutto il libro: “distante dagli altri / a un passo dal vento che dilata il silenzio tra le pietre / vivo in questa misura che costringe lo sguardo ad altre sere”.
Non si creda che questo uscire dall`io sia operazione ironicamente “ricercata” o che si manifesti, illusoriamente, per mezzo di un tu proiettivo. Al contrario; il dispositivo interiore messo in atto rivelerà qualcosa di profondamente reale e drammatico, anche dal punto di vista delle figure retoriche in campo: negazioni, litoti, ossimori. E si tratta di uno sguardo elegiaco sul reale, in cui l`io del pensiero è tenuto basso: qualcosa che ricorda un illustre precedente, se non altro per certi contenuti e per il tono (mi riferisco a Bertolucci), ma senza quell`aspetto di «humor» di cui parlava Pasolini a proposito di certa poesia del poeta parmense.
Un libro, eccetto rarissimi casi, scritto tutto al presente: “ora” e “qui” sono i due occhi del testimone, “qui e ora” del proprio vissuto: “perché, ora, si ferma davanti alla mia mano / questa cosa che viene dal limitare? “.
Il libro è pieno di “ora”: si vedano, solo per citare alcuni esempi, le pagine 13, 21, 65. Stesso discorso vale per il “qui”: “e vorrei tenerti qui / nella casa buona delle persone che ti amano”; (ancora si leggano le pagine 45,60,61,72).
In questa prospettiva tutta fenomenologica che ho delineato, odorato e udito acquistano la loro ragione di essere; citiamo, come esempio, la strofa iniziale della poesia incipitaria della prima sezione, (veni, veni…):
annuso, nella sera dei non vedenti
la schiuma delle nuvole che sfiora i muri
sento che penetra nelle ossa della casa
calore di una voce che vuole abbracciare
voce di farina che si fa pane
e così mi addormento
L`uso degli aggettivi è parsimonioso e preciso. Impressionante l’utilizzo dell`aggettivo più ricorrente, “buono”: un cielo buono (pag.12); una sera buona (pag.16); amico buono (pag.21); lacrime buone (pag.30); cibo buono dell`amicizia (pag31); la luce delle cose buone (pag.34); anime di terra buona (pag.45); il tenente buono (pag.40); nella casa buona (pag.43); dalla scorza dell`albero buono (pag.68); nebbia buona (pag.77).
Elemento portante di questa fenomenologia è la stessa materia del corpo: visi, occhi, mani, bocche. E gli animali: il cane, le lepri, gli uccelli, la volpe. E gli elementi della natura: le foglie, gli alberi, le piccole pozze d`acqua, le pietre, il ghiaccio, il cielo, il respiro delle cose.
In questa visione dello sguardo, la dimensione psicologica pare arrestarsi; nel senso non che essa non esista, ma che sta, come dire, dietro la pagina; è una psicologia, insomma, che non si dà direttamente nella parola, nemmeno nei suoi risvolti di meccanismi difensivi. Non c`è identificazione, per esempio, tra il poeta e la volpe. Sebbene sia evidente in tutto il libro una componente infantile, si tratta tuttavia di un adulto che porta dentro il bambino di una volta, senza gli aspetti proiettivi o introiettivi nei confronti dei suoi alunni/bambini, (Aglieco insegna nella scuola primaria).
Quando leggiamo versi come questi: “vorrei essere nel mondo / nelle parole povere del mondo / anch`io padre e madre“, percepiamo una dimensione di relazione esistenziale e umana che va oltre i dati psicologici e/o biologici. Ecco perché il poeta parlando dei suoi scolari può dire: “siete i miei ultimi figli adottivi / dovrò proteggervi dal canto ultimo / dal silenzio che trascolora“, (pag.49).
In versi come questi: “le mani della brina spaccano le melograne morte / la cimice stordita chiede pazienza per la sua bocca secca“, (pag.12), percepiamo una dimensione di unità che racchiude in sé tutte le molteplicità reali e concrete. Del resto una percezione di unità è presente in tutto il libro: si vedano almeno le pagine 17, 39 e 41.
Una conferma di questa coscienza “abbassata” è confermata da molti testi che trattano di cose all`alba o al tramonto: ad esempio: “questa terra si fa sostanza nel tramonto“, ma si vedano pure le poesie alle pagine 12, 16 o 33.
Forse l`unica volta in cui il poeta si lascia andare psicologicamente, accade in “denotazione“: (vorrei morire ma senza sapere di morire).
Questo “quaderno“, aggiungiamo, non è “costruito” tramite il pensiero. Non pensare significa anche non formare più e lasciare che ogni singolo evento accada. Forse qualcosa di simile manifestano alcune poesie, per esempio quelle alle pagine 77 e 78; e sentiamo, fuori del pensiero, un senso di strana e inquieta pace: “non siate più: / dono e preghiera, affronto / dispersione e lamento, nulla”, (pag.60). O, addirittura, “e non scriverò più ”, (poetica, pag.30).
E` vero che il poeta scrive: ” pensiero violento”, “pensiero ghiacciato” ,”pensieri fragili”, ma questi pensieri ( si noti gli aggettivi che li affiancano) sono il frutto delle sensazioni del poeta. Si legga, ad esempio, in “cartina muta“, la chiusa:
lo sguardo, da dove non si vede più
si perde a cercare un punto
raccoglie frammenti di pensieri
finché le parole non hanno più niente da dire
versi che ricordano certe massime dell`antico Estremo Oriente (il Tao); qualcosa di simile è detto nella penultima quartina di pagina 30, ed anche nelle pagine 55 e 69, sino ad arrivare a questi versi bellissimi e liberatori: “perché ho deciso di essere in un pensiero azzerato / amico della giustizia dei non nati“.
Si potrebbe dire meglio che probabilmente questa raccolta allontana da sé ogni razionalizzazione. Infatti, al di qua dell`immaginazione e al di là degli inganni del pensiero razionalizzante, il poeta accoglie gli eventi per come sono, puro accadere delle cose di fronte agli occhi. Questo certo non implica che il poeta diventi semplice soggetto ricevente e basta; lo si capisce, tra le altre cose, dalla lucidità dei versi, sui quali Aglieco ha un pieno controllo.
Si è detto dell’omogeneità del libro che, mi pare, possa intendersi come una gestalt: Aglieco, ad esempio, utilizza rimandi e ripetizioni, (si notino i 3 versi conclusivi di pagina 20 ripetuti poi a pagina 24): “in questo tempo che ci lascia senza bocche e attese / perché il vento fa nugoli di polvere all’impazzata / ubbuidisce al suo semplice volere”
Essendo un libro fenomenologico ed esistenziale, le metafore sono ridotte all`essenziale, all´osso, ed emergono, soprattutto, quando appare la volpe; che è davvero apparsa al poeta (ce lo dice la Nota a fine libro): quell`apparizione reale si fa epifania e diventa un simbolo (l`unico presente in tutta l`opera) che, addirittura fuori del tempo, prende la parola e parla al poeta, (nascondiglio, pag.55).
Forse,in questa sezione, l`ultima del libro (Signora della nebbia), Aglieco raggiunge gli esiti poetici più alti. Nelle altre tre sezioni (Diario del primo inverno, Luce della necessità e Anime di terra buona) molte sono le poesie belle: (la sostanza degli alberi, avvento notturno, nottata, luce della necessità, alla cattedra regale, anime di terra buona ) ma certi testi della sezione finale hanno qualcosa in più, qualcosa di magico e di perturbante, e tuttavia sempre dentro una dimensione realistica: mattinale, nascondiglio, il nome, galaverna, sacrificio, le parole della volpe, ti ho visto stamattina.
In riferimento a Sacrificio, (pag.4), testo che ci parla della volpe, in una comunicazione personale Aglieco scrive: “Le viene tagliata la lingua proprio perché la sua lingua custodisce il nome che non va detto, pronunciato. Lei va dal poeta per consegnargli il nuovo nome, il NESSUNO che ogni poeta dovrebbe essere”.
Nel sacrificio della volpe è possibile supporre un processo iniziatico: l´esperienza della morte al mondo e della rinascita spirituale; aspetto questo importantissimo nel libro, perché nella lettura proposta come gestalt, già in molte pagine indietro leggevamo questi due versi: ”vorrei morire senza sapere di morire / risorgere dalle lenzuola come un tenue frullare di farfalla”, (pag.31).
Ammettere la struttura unitaria del libro non significa non vederne il lavoro in progress; e se, infatti, a pagina 31 leggiamo il termine “come” , giunti quasi alla fine, l`epifania della volpe annulla quel “come“.
Altri testi annunciano già in nuce la trasformazione di sé: ”vorresti giungere al centro / alla fornace della terra per non esister più, (pag.23); oppure tutta la poesia “Nottata”, (pag.32). Sono poesie, queste, che si fanno anche specchio di un mondo alternativo alla messa in scena e alla maschera, alternativo ad un mondo che non riusciamo più davvero a vedere né a capire. Ed ecco che qui avremo, invece, il mondo delle piccole cose dimenticate, degli animali incontrati improvvisamente per caso, dei bambini difficili. Aglieco lo dice chiaramente: “noi non capiamo piu` dove siamo e andiamo“, (pag.67); si vedano anche le poesie alle pagine 63,66,68 e 70.
Passiamo a qualche sommaria conclusione di questo viaggio. Il vero miracolo di questo quaderno poetico, sta nel descrivere una “nuova rinascita” partendo da un`esperienza personale, concreta, collaborando all`opera della natura, lavorando sulla materia vivente, così come si impasta la farina con le nostri mani. Un libro che ci parla, in quella prospettiva esistenziale di cui si è più volte detto, di una possibile salvezza e il cui monito (o, se volete, il grido) sarebbe che non ci si salva da soli se si desidera rinascere in un altro modo di essere che riscatti il senso sacro della vita. Pare che questa “Luce della necessità” indichi, umilmente, una via: quella del ritorno (si leggano i testi alle pagine12, 21, 34); ritorno, si badi bene, non alla casa (esperienza già poeticamente elaborata dal poeta in altre raccolte); ritorno, invece, alla dimensione sacra di tutte le cose, senza la quale il reale non può che essere illusione e menzogna.
Questo ritorno è nel “qui” ( nel libro non ci sono riferimenti al lontano, alle origini); invece si legge di un “qui” che diventa sempre: “il fiore che sempre sboccia e sempre ci indica / la strada di una luce”, (pag.73). Un sempre qui: ai piedi di un albero o davanti agli occhi improvvisi di luce di una volpe, di fronte ai quali il poeta si fa coscienza-testimone. E se l`aggettivo che pervade l`intero libro è buono, il sostantivo che acquista valore etico è il perdono; si leggano questi versi di “Nottata”, a pag.32:
so che è così
e non so dire perché il tempo ora mi sembri
una ciotola di fiori secchi in attesa del perdono
non so dire di me
come sempre
come tutti
Perdono e attesa: “il grido che ti esce dalla bocca e non è tuo // è di un dio senza parole che ci abita tutti / che ci tiene stretti qui / a questa terra che si fa mistero e attesa di un perdono, (a un bambino difficile).
Fino al piccolo miracolo dell`ultima poesia, il cui primo verso recita: “siete tutti qui, forme“ ( da leggersi come dittico della poesia che la precede).
Il compito indicato, insomma, è di riadattare il senso sacro alle fragili possibilità di questa umanità sempre più dispersa e decaduta. Al di là di ogni possibile interpretazione, si tratta essenzialmente di una poesia esistenziale, in cui sentiamo, nonostante tutto il freddo e il dolore che pervadono il libro, una gestalt vertiginosa di calore umano e che rende Aglieco il più dolce poeta che abbiamo oggi.
E’ sempre con un moto di palpitazione – carnale e non simbolica – che leggo restituzioni di testi con i quali ho una relazione stretta. Questa di Alessando Corradino (che non conosco) in modo particolare perchè si occupa, nella logica appunto della “restituzione” a cui Aglieco fa riferimento e non della “recensione, di un libro di versi fresco di stampa il cui autore conosco da anni e con il quale ho una frequentazione di prossimità umana e culturale per me di grande rilievo. In altro modo – anch’esso particolare – il lavoro attento di Corradino mi ha suscitato un moto felice di reazione quando ha definito il libro come “fenomenologico”. Il termine mi richiama alla mente il francese Merleau-Ponty e il suo classico “Fenomenologia della percezione” che ho frequentato e frequento come territorio ricco di profonde intuizioni. Tant’è…qui non è certo il caso di occuparsene, se non fosse che lo stesso Corradino, nel suo procedere alla letturadi Aglieco, introduce la questione fenomenologica con una affermazione apodittica quale “i pensieri sono il frutto delle sensazioni del poeta” che poi si sviluppa in una considerazione quale “la raccolta allontana da sè ogni razionalizzazione” ; e poi ancora si articola in un concetto come “la lucidità dei versi sui quali Aglieco ha pieno controllo” per finire con una ultima considerazione (forse la più illuminante) che recita: “Il magico e il perturbante dentro una dimensione realistica”. Su questo ho una consonanza piena, da lettore, per quel che può valere: la scrittura di Sebastiano è sempre dentro una cornice realistica ma la stessa cornice contiene il magico e il perturbante. Sembra un paradosso: e lo è, appunto, come lo è il fenomeno, ciò che appare ai sensi e che ha la sua verità nella appercezione tramite i sensi – i soli strumenti che abbiamo per entrare in contatto con il mondo. In fondo Corradino ci vuole dire però che se il verso di Aglieco” non è costruito tramite il pensiero” lo si deve al fatto che pensare trasforma il mondo perchè “insiste” nel mondo, ne è parte. E forse il recupero, la rinascita del sacro che Aglieco mette in atto con la sua poesia sta proprio qui: assumendo il fenomeno in tutta la sua potenza di verità che appare, dove apparire lo fa essere necessario e al contempo perturbante nel momento in cui lo si intuisce inconoscibile – e talvolta anche indicibile -fino in fondo. “Das ding”, la cosa: a questo mi ha fatto pensare la volpe che è apparsa a Sebastiano molte volte: la prima nella nebbia, la seconda nella sua memoria, la terza nei suoi versi, e poi come motore che muove il rapporto con se stesso e il Reale (maiuscola necessaria). Aggiungo che la riflessione di Corradino la immagino come un dissezionare un corpo poetico in-dissezionabile in quanto tale. Lo scrive lui stesso in chiusura quando definisce Aglieco “il più dolce poeta che abbiamo oggi”. Dolce ma non certo mieloso; dolce ma non certo carezzevole di pietismo retorico; dolce forse come un dolce fatto in casa, frutto di mani esperte, di affetti solidi, di materia e di fatiche antiche. Molto mi ha fatto riflettere questio aggettivo con cui viene fatta sintesi del lavoro sulla poesia, con la poesia, per la poesia di uno come Sebastiano Aglieco. Ne ho trovato senso in “…che abbiamo tra noi”. C’è una specie di abbraccio di comunità. C’è un noi che conforta. Forse è questo il magico a cui approda Sebastiano con la sua poesia e in quanto tale, quando la dona a noi lettori, diventa perturbante. Così come lo è sempre una “luce della necessità”, perché quando appare è fenomeno di verità. Grazie.
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È una nota che ha la valenza di una restituzione. La pubblicherò come tale, con una replica. Grazie
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