Ultimi libri: Giusi Busceti, UFFICIO DEL SOLE

Giusi Busceti, UFFICIO DEL SOLE, Stampa 2022

Giusi Busceti non ha pubblicato molti libri di poesia, però la sua scrittura è una di quelle che matura nel tempo con lentezza, si sposta verso il presente pur mantenendo ben saldi i tasselli che l’hanno originata: ad esempio, da un punto di vista stilistico, la costruzione sghemba della sintassi, una certa svagatezza dello sguardo.

In questo suo recente lavoro, mi sembra di leggere una meditazione sulle cose, anche le più banali, eppure contornate da un’aura capace di far splendere anche un “mozzicone”, una via. E tuttavia non si tratta di minimalismo spicciolo, la descrizione fine a se stessa; piuttosto di una messa a punto della propria psiche utilizzando come mezzo un approccio poetico sulle cose, sulle povere cose che ci circondano.

Nello stesso tempo lo sguardo di Giusi Busceti è concentrato a non disperdere, a tenere, piuttosto, i ricordi che, quando si fanno lontanissimi diventano espressione di un mito collettivo, reperto archeologico non ancora fossilizzato dell’umano e dei suoi totem.

La poesia, insomma, si allarga e si restringe come una maglia, non conosce la cronologia.

E per ultimo: questa scrittura calma è stata sicuramente abitata, e in questo libro lo si vede molto bene, dalle brume del nord, dalla lentezza del canto delle pianure. Ciò che in lei abita del ricordo di un Sud sempiterno e favoloso, non emerge dallo stile ma dal sostrato dei contenuti, dalle scene che si fissano nella memoria come a baluardo dell’origine.

*

Le poesie di Giusi Busceti sono il grido dell’Orsa Maggiore. Il paragone eccentrico esige una frettolosa spiegazione: il tema riguarda una doppia metamorfosi, fenomeno raro, raccontato da Ovidio. La vicenda è nota: Callisto è, per futili motivi, tramutata in orsa e si esprime con commovente animalità. Il massimo dell’espressione è raggiunto quando alza le zampe anteriori, come una preghiera o un abbraccio, davanti al figlio Arcade, cacciatore, che la insegue, ignaro. Mi fermo qui, su questa immagine toccante. Cosa c’entra Giusi Busceti? A parte la questione, non minore, del linguaggio che si aiuta con i gesti (sarà questa la funzione, a modo suo, del verso?), all’Orsa Callisto viene concesso un fatto mancato, origine di ogni destino innovativo, una deviazione dell’accadere imminente e lineare: non sarà, infatti, colpita dal figlio Arcade, poiché, attraverso una seconda metamorfosi fuori dall’ordinario, sarà assunta in cielo, nel quale risplenderà come costellazione di prima grandezza, l’Orsa Maggiore, sfavillante e muta. Per due volte, infatti, avviene una sottrazione di linguaggio nelle due fasi della metamorfosi: nella prima (l’orsa terrestre), viene perso il linguaggio della comunità (…) nella seconda fase (l’orsa celeste) il linguaggio perde la caratteristica di segno per diventare pura apparenza. (…) La poesia, insigne oltre che indiziaria e programmatica, che apre Ufficio del sole di Giusi Busceti, sembra rappresentare tutto ciò, aspirando a qualche doppia metamorfosi, quasi rinnegando il parlare, rendendolo un faro puntato negli occhi, poesia che si occulta nell’evidenza, costellazione muta.

(dalla postfazione di Angelo Lumelli. Per la verifica della sua ipotesi si legga il primo testo qui qui presentato)

*

Se l’estate non ci viene incontro

fra breve

ci ritroveranno decimati

su questa punta di mezzanotte

dove animali dalle pelli ignote passano

badando a non toccarci. Passano

anche gli elicotteri e si allontanano

di poco, per riflettere. Chi

crederebbe ai nostri occhi?

Per cinquanta minuti una galleria del vento,

disse anche l’ultimo dei sopravvissuti;

ed io, scampata

perché scivolo meglio sui crepacci

sul cuscino immateriale che si gonfia

e si sgonfia nel cuore

e mi solleva, ho in nodo

una spalla slogata: afferrare

per sempre treni e navi fuori tempo, allargare

lo spazio per le vertebre spezzate.

E il cielo?

che da tempo ci copre con dolcezza, questo,

radar sull’arcipelago che trema, è lo stesso

che toglieva il respiro, in altalena.

*

LEGGERISSIME

Il senso è quest’albero di musicale perdita

rossa incrociata dalla mia finestra:

come cadono, volteggi

di primo inverno, leggerissime.

Di questo peso lascerò affollato il letto.

Io gli aceri e le betulle e i platani

come di Francia sie stendono in me

corteggiando cammini:

lievi gli occhi il sorriso.

Ma alle caviglie – pronte, neppure adolescenti,

allo scatto – viene ora lo strascico di folle

nel clamore che storce visi e viscere,

questa piena

greve, quello sguardo

gettato all’improvviso sulla terra.

Iniquamente abbiamo la nostra eredità

e questo esordio

rosso giallo donato pomeriggio

del lievissimo volteggio.

*

NUBIFRAGIO

L’ultimo giorno d’innamoramento

ricordo, i bar deserti sul battello

feriale, il primo

della stagione di navigazione.

Niente di qui d’estate si discosta

dai freschi interni, i cassettoni a specchio

dei corridoi, a sud. Ora come

intervallo, solamente, solstizio.

Melograni hanno acceso le giornate

più fredde, ed arance. Ora è

ora, in niente può ingannarmi

il volto che ha

scolpito sulla schiuma della riva

orientale, i capelli

ricadono sul collo, nascondono

la fronte, proiezioni

sulle elezioni, primi raffronti col 2008.

Più crudele dei mesi è questo senza

tempo d’acqua e di pietra.

Infuria un nubifragio il parabrezza.

*

MOZZICONE

A forza, a denti stretti l’ho tenuta

costi quello che costi questa spina

elettrica oramai bollente fusa

squagliata nella presa della pioggia

che da ore noi siamo, ora

la mollo è finita

quest’altra settimana

di feriale passione tuttavia

non si stacca si aggrappa al finestrino

di tanto solo fumo un mozzicone

dispettoso non vuole scivolare

su quella cosa fragile che un vetro

è in me ora tra me e lui

mi assicura: cadrà, vedrai,

con un sorriso, d’un colpo svanirà

nei fiumi d’acquastrada

ora brevissima!

Da portiera a portone

fine è chiuso

*

INNAFFIATOIO

Dev’esserci un motivo se fiorisce

tutto questo minuscolo balcone

qual oasi travolta da un tripudio

mentre io boccheggio tra un divano e un letto

e un lavoro d’infelice quotidiano ostaggio.

Qualcosa sfugge dunque all’ostinato

passivo dei miei calcoli. Non tornano

davanti all’evidenza che c’è coloratissimo

un ritorno: prima, vera e potente la feconda

stagione della mia fatica se ne infìschia

e dal fondo succhia ridente al mio estenuato

innaffiatoio inconsapevole l’istinto

a non lasciarmi rovinare. Cosicché

mi ritrovo dai germogli e dai fiorisce

ad apprendere più forte dell’amaro

che mi spinge l’amore irrigatore

ben oltre quel ch’io ne voglia sapere.

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