Alessandro Bellasio, MONADE, L’Arcolaio 2021
Nessuno muore
con la morte. Non si vive
con la vita.
Si potrebbe riassumere con questi versi che sospendono l’essere sull’orlo dell’irrisolto e del possibile, l’esperienza poetica del secondo libro di Alessandro Bellasio. Parlo volutamente di esperienza in quanto la poesia non è capace di trascendere il reale, così come non è capace di negarlo definitivamente negandosi essa stessa.
Questo modo di ragionare non può che coinvolgere lo strato più esteriore della carne, e cioè quel sottile velo che ci separa dagli abissi contrapposti del cielo e della terra. Pericolosamente pensato sulla pelle, il testo è dunque cartina di tornasole sensibilissima di ciò che avviene nel contatto e nel contrasto; il corpo, che qui si dà come parola, reagisce nel modo in cui fanno gli animali quando si trovano davanti a un pericolo: ghermiscono e atterriscono.
Non c’è scampo, ci dice Bellasio, di fronte all’esperienza della trafittura; essa va vissuta pienamente, a costo di catapultare la parola fuori dal suo senso mondano, di consegnarla al dolore lancinante del taglio.
Insomma: questa poesia non ha voglia di scherzare; il grottesco della vita è percepito nella torsione della maschera tragica che, ponendosi davanti all’infinita platea dell’umano, riporta la parola deformata di un dio costretto a mostrarsi nella carne, in questo modo lacerandola.
Come leggere, dunque, correttamente, questa Monade? Se restituiamo l’etimo alla sua storia, è evidente che ci stiamo riferendo a un contrasto tra la sostanza primigenia, il ciò che è, e il suo declinarsi nella molteplicità delle forme.
Creatura, fondamento piegato, strapiombo di pensiero, impatto, parificazione, invasione… sono tutti termini che rimandano a un “venire” disadorno, improvviso e misterico. In contrasto, a stemperare il sipario squarciato della nascita, solo gli elementi naturali, chiusi, racchiusi nella perfezione eterna dell’idea: pleiade, ambra, litio, diamante; entità di un fuoco già soffocato, ghiacciato, incurante della tragedia del movimento per desiderio dell’unità, del suo misterioso trascendere.
E poi gli strumenti pericolosi per percepire il tempo: zenit, clessidra, radar…e ancora: un modo diverso di essere al mondo: airone, corolla…
La tragedia si costruisce nel contrasto tra essere e pensare, (tecnologia, strumenti…); tra l’essere impensante ( dato nelle forme biologiche più semplici) e un’assoluta mancanza di pensiero.
Credo che il fatto più rilevante, a proposito di questa poesia, consista nel riflettere su come un pensiero ancora giovane – Alessandro Bellasio è nato nel 1986 – sia stato così precocemente baciato dal demone dell’infinitezza misterica, il quale, se da una parte consente di spalancare gli occhi sull’abisso della parola, dall’altra chiede in cambio il pegno di una precarietà esistenziale, di un essere fuori dal contorno.
Forse il dramma consiste nell’aver estroflesso il dio dalla parola, lasciando la parola sola, nel suo involucro di casa non più abitata; urlo irrisolvibile e lamento inconsolabile. Parola che non è invasata – al limite, totalmente irresponsabile – ma invasa dalle domande; da una sensazione di vuoto che capricciosamente chiede di essere riempito di un qualche senso.
Il compito del poeta, allora, è un’attività serissima, ed egli è cosciente che può descrivere solo il disastro.
L’invasione finale messa in scena da Alessandro Bellasio, tragedia esposta per coro e voci singole, è concretissima nelle sue immagini di devastazione e di dolore. Forse la più bella di tutto il libro, ci mostra i fotogrammi di corpi doloranti che ben conosciamo e che censuriamo quotidianamente dietro al sipario nero della paura. Questi corpi non vogliono essere più, ma prima di scomparire lo dicono, lo gridano, assitono alla loro fine in attesa che tutto crolli per sempre: …e con essi la parola che ha preteso di salvarli.
*
Dalla sezione INVASIONE
Mi hanno appoggiata su una garza.
Io pendevo, nascosta fra i capelli
ho, da lontanissimo,
chiamato un fazzoletto. E’
questo
il reparto, la voragine
da dove decantare tramortiti. Ho
invocato il sonno, la puntura
che contiene il buio, un grammo
di notte, la cattura.
Sto distesa…Sento, forte,
la mia carne, il lungo
muggito che mi serra – la mia vita
inchiodata in me, gli aghi.
Non mi muovo.
Affondo, qui, da qualche parte
al di sopra o
al di sotto (non so più)
di me. Scorgo
il mio respiro;
non lo inseguo.
Capisco.
*
Forse già da prima
io da molto non esistevo più. Mi domando
da dove mi sia giunto
questo coma, da quale piano, da quale
disastrato cielo
esso si sia abbattuto in me…
Mi cerco
tra queste gocce, nel dosaggio, forse
in un rigo del referto, sì,
in un bicchiere
di latte tiepido.
Tosse, bisogno, piastrelle…Non esiste altro.
Lo sento.
*
Volate via…sono rimaste
le cartelle cliniche, gli infermieri,
l’ininterrotto
pattugliamento
di farmaci
venuti per sedare il mio cervello.
Sono
veri
gli spettri dove esisto, attraversata da una mente
che è iniziata con un grido. Da qualche parte.
Vicinissimo…La luce
scende
sui letti addormentati – tutto è fermo,
colpito
da oltre, prima
di me. Ne riconosco il livido, l’odore.
*
Avrei voluto gettarmi
da un palazzo di novanta piani, volare
a capofitto in questa aria
che non riesco adesso a respirare… Assisto, invece,
alla mia fine, la comprendo, ecco – guardo
entrare i palliativi, i
contagocce che mi chiamano
nel decubito da esistere.
Datemi, presto!, una maniglia, una
porta che io apra, un’uscita, sì –
uno strattone
che mi estirpi per sempre dal decorso…
Forse la caldaia, ecco!, la caldaia
vecchissima a niguarda
esploderà stanotte, annientando questo trauma.
“…il lungo muggito che mi serra…” resta. Come il segno di uno schiaffo. Stranamente non ferisce, non spezza. Anzi copre e spalma le cose della sofferenza con pre-potente parola : “muggito”. Che è “lungo” e aumenta la sua forza di dolore con la vocale gutturale scura ,mentre rimbalza sulla “i” sonante e muore nella chiusura del serrare. Insomma, questo giovanotto – mi ha fatto un dono, a fine anno 2021.
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