La retorica dell’incontro

104210303-9507359c-5c34-4df1-bfa3-be1a996b58daSembrerà strano questo mio intervento sulla retorica dell’incontro, dopo anni in cui ho perorato, fra i poeti, e non solo, la causa dello scambio umano e culturale. Ma è che, ultimamente, parole come gruppo, comunità, amicizia, sbandierate in internet come vessilli e programmi, cominciano a darmi fastidio.
E devo dire, come premessa, che, per formazione e biografia, i miei gesti e la mia opera rimangono profondamente influenzati dall’idea di una koinè, di una diversità, accomunata – mi si perdoni l’ossimoro – dalla biologia dell’universo che abitiamo e che ci abita: creazioni, distruzioni, frammentazioni.
Impossibile, quindi, trincerarsi dietro il pensiero di un totalitarismo culturale, umano, esistenziale. Più realistico, invece, immaginarci tutti nel vorticoso sommovimento degli atomi che, per divergenza o simpatia, si attraggono e si respingono.
Cosa c’è di diverso, nelle nostre azioni, dal procedere delle leggi che creano e annichiliscono la materia? Attrazione e repulsione improvvise; o peggio: attrazioni che diventano violente repulsioni o viceversa. Decliniamo queste forze destinali nell’agire degli umani e vediamo cambiate solo le maschere, la forma delle parole. La sostanza e la qualità dei sentimenti, invece, non cambiano affatto. Perché ci sono passioni nel nostro cuore e ci sono passioni che si agitano intorno agli eventi tutti; la nascita di una stella come il tremolare di un filo d’erba al vento. Avevano ragione gli antichi nell’attribuire passioni ferocissime agli dei – anche peggiori di quelle umane perché neanche calmierate dalla pietà – se persino il dio dell’antico testamento distrugge e ricostruisce, e non guarda in faccia a nessuno.
Siamo dunque condannati dalle leggi naturali a vivere nel nostro quotidiano il flusso e riflusso di queste forze che noi chiamiamo con nomi opposti: amicizia, inimicizia, odio e amore, pietà e compassione, comunità e singolarità, tradimento e fedeltà.
Noi non siamo capaci di abitare fedelmente, e per tutta la vita, dentro una di queste forze. Chi è amico prima o poi tradirà o si sentirà tradito. Chi pratica la non violenza, prima o poi si ritroverà ad imbracciare un’arma per difendersi. Chi s’inventa una comunità, prima o poi si ritroverà a cercare una casa in solitudine.
Siamo transeunti, insomma; soprattutto le nostre parole, ed è solo una questione di tempo perché si realizzi ciò che si deve realizzare: il tempo della maturazione del frutto e del suo disfacimento.
Eppure…eppure… siamo capaci, con durezza, di stare dentro un’idea, una sopraffazione, un rigore, uno scarto verbale, una categoria. Ché, in fondo, siamo specchi di una violenza iniziale, di una diversità che non si risolve, se non per guerra, per annientamento dell’altro, per dichiarazione di una superiorità che ci rende simili a quella cosa che chiamiamo Dio.
Dobbiamo scegliere con chi vogliamo stare, e in questa violenza esercitiamo la prova di una dura libertà.

Sebastiano Aglieco

5 commenti

  1. Il tuo articolo ha tantissimi spunti, anche duri e complessi.Impossibile approfondirli tutti. ne scelgo uno e non lo approfondisco: lo rilancio soltanto: ABITARE FEDELMENTE. Forse al concetto di fedeltà andrebbe sostituito quello di responsabilità: che vuol dire , come scriveva la Campo, rispondere, cioè, molto in pratica: sentire una chiamata e decidere che in quel momento dobbiamo andare lì, altrimenti non lo farà nessuno e qualcosa andrà perso. Fedelmente abitare – verbo vagamente heideggeriano e a dire il vero un po’ adusato – forse significa appunto: uno stare dinamico, limitato, povero, possibile, ma responsabile (cioè in ascolto di dove siamo necessari). Abitiamo una casa, e più la sentiamo nostra nostra più la cambiamo: strettamente parlando, non le siamo affatto fedeli. Non la teniamo identica a com’era. Ma nell’ottica di un’abitare responsabile, questa fedeltà, che magari dall’esterno nessuno comprende, è forse la sola vera, possibile, biologicamente viva. Lo stesso per un’idea. Lo stesso, naturalmente, per la poesia. Stare responsabilmente nella poesia significa muoversi nella direzione in cui siamo chiamati per nome: proprio il concetto di vocazione, inutile sottolinearlo. Ed è questa la “fides”. Il necessario. Responsabilità verso la scrittura, molto in pratica, può anche comportare lunghissimi, necessari silenzi. Può, forse in molti casi deve: quando lì siamo chiamati, a un silenzio che corrobora una parola che sentiamo come moneta fuori corso. Responsabilità che rischia, ripeto, di non essere capita all’esterno. Guai a volerlo: non risponderemmo più alla voce che chiama, ma a qualcos’altro. Cominceremmo davvero a rompere la “fides”. Non so se ho risposto, certamente no. ale.

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  2. ciò che io penso è che la nostra migrazione non avviene mai, in realtà, verso noi stessi, perché non accogliamo la migranza che viene da noi, ogni attimo, per questo, dentro questa nostra incapacità, che è poi egoismo, egocentrismo, mancanza di volontà di metterci davvero in cammino verso, verso l’altro che è noi stessi, incapacità di abitare la nostra “nonmisura”, per tutto questo noi non siamo mai un noi ma sempre e solo un asfittico io, nemmeno meraviglioso io e io e ioeioeioeioeio….che diventa un suolo che si perde, che si fa consapevole della diversità della singolarissima nonmisura. La terra è diventata la polvere che mangiamo, respiriamo, sogniamo da animali che sono diventati più terribili di quelli che li hanno generati. Il resto è una catalogazione di esercizi di parola che è meno dell’aria che ci servirebbe. La gente muore, dovunque nel pianeta, e noi stiamo a fare lettere.
    ferni

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  3. la gente muore e noi stiamo a fare lettere…non è uno scandalo. ognuno deve fare quello che deve fare; per istinto, per compito, e non è necessario sentirsi dei mascalzoni se facciamo lettere. questo non ci impedisce di adottare un bambino a distanza, di alzare la voce contro le ingiustizie, di fare, insomma, ciò che gli uomini devono fare. non vedo contraddizioni in questo. ognuno deve ubbidire alla propria voce. e tutto questo, a me sembra, tutto questo è parte di un gioco immensamente più grande di noi. pensa alle parole di quasimodo: sei ancora quello della fionda etc… dove stiamo andando? praticamente non lo sappiamo. non sappiamo neanche se stiamo andando avanti o retrocedendo.

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  4. certo, è questo, tutte queste contraddizioni, contra-dizioni che sono il paradosso che ci costituisce, che mostra ciò che siamo: niente, un niente che si agita ma che non cambia nulla se non in apparenza, nemmeno in superficie,. Quando dico facciamo lettere dico che parliamo e basta, che non c’è poi una profondità che porti dall’uno agli altri, molti, non dico tutti, e che questo conduca ad un agire che effettivamente serva ad uscire da quella infera condizione che l’indifferenza contribuisce a costruire, per cui la gente, troppa gente, muore ma non ci sentiamo abbastanza responsabili per cambiare niente. Fragilità, impotenza, nulla su cui innalziamo la parola come barricata, come trincea, come bandiera, come frode e alla fine siamo ancora più poveri. Tutto questo fino al giorno in cui, in un ospizio, non pronunceremo che sillabe, non parole , fino al silenzio. f

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  5. L’ha ribloggato su Manifesto Webe ha commentato:
    Articolo molto interessante, sopratutto in un’ottica delle relazioni e comunità virtuali. Comunicare senza parlare, anichilire le distanze, e per certi versi anche le maschere, in quanto non ci si trova di fronte a nessuno. Eppure, noi stessi non siamo nessuno su internet e chiunque può essere qualcun’altro.
    Grandi amicizie costruite ai tempi di Myspace (chi se lo ricorda?) e poi svanite nel nulla digitale.

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